Da giovane James Montague voleva scrivere di politica ma da buon british amava troppo il calcio. Così è diventato uno degli esperti più noti su tutto ciò che riguarda il tifo organizzato. «Per comprendere i tifosi di una squadra devi guardare alla comunità della loro città», racconta. Tifoso del West Ham, gli Hammers, Montague ha 45 anni ma ha passato gli ultimi dieci dentro gli stadi di più di cento paesi. In Italia ha conosciuto persone come il capo ultrà atalantino Bocia e quello della Lazio Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik. «L’ho incontrato due mesi prima che lo uccidessero». Nella capitale ci è tornato per presentare il suo libro, Fra gli ultras, viaggio nel tifo estremo, edito 66thand2nd.

Come si è evoluto il fenomeno ultrà negli ultimi vent’anni?

I tifosi riflettono il mondo, e questo è cambiato rispetto a 20-30 anni fa. La tecnologia ha cambiato tutto ciò che riguarda il movimento ultras. In primo luogo cambia il modo in cui si sviluppa e si diffonde. Prima avveniva con le riviste, poi le cassette Vhs spedite per posta, poi è arrivata la televisione via cavo, e infine internet. In pratica la cultura degli ultrà è stata globalizzata. Ma c’è un rovescio della medaglia. La tecnologia è anche sorveglianza e ha demolito uno dei principi fondanti, cioè quello dell’anonimato.

Che cosa è cambiato a livello di violenza?

Il tipo di violenza che si vede oggi durante le partite di calcio è molto diverso, in parte a causa della repressione della polizia e delle pene severe introdotte. Paradossalmente vediamo più immagini di violenza nel calcio, ma se si guardano le cifre ce n’è di meno. Questo perché si è spostata lontano dagli stadi. Ci sono fight club clandestini dove i gruppi si scontrano con regole ferree. Sono molto popolari nell’Europa dell’Est, ma anche in Germania, Francia e Olanda. È molto difficile trovare informazioni al riguardo. In Indonesia, ad esempio, sono stato quasi ucciso durante una partita a colpi di machete. Quello che vediamo in Europa è la brace morente di qualcosa che era molto diffuso e pericoloso nel calcio 30 anni fa. Il volto moderno della violenza nel calcio esiste e vediamo solo la punta.

In Italia spesso viene citato come esempio positivo la repressione degli hooligans.

La gente confonde ultrà e hooligans, ma non sono la stessa cosa. Noi abbiamo avuto una cultura hooligan violenta e nichilista. Secondo alcuni studi, era una risposta alla deindustrializzazione e un tentativo degli uomini di reclamare la propria mascolinità. Gli ultras nascono in un mondo capitalista. Rappresentano la loro comunità, portano con sé il peso della storia, hanno un fine più nobile. In Inghilterra, però, abbiamo criminalizzato ogni spazio per organizzare qualsiasi tipo di cultura calcistica. Il risultato è un’atmosfera terribile. Abbiamo trasformato la Premier League in un prodotto televisivo di valore, proprio per questo non sei obbligato ad andare allo stadio.

Si poteva agire diversamente?

L’esempio è la Germania, che negli anni Ottanta e Novanta aveva un problema di hooligan grave e legato all’estrema destra. Ma la regola del 50+1 (per cui i tifosi detengono la maggioranza delle quote societarie della squadra, ndr) ha dato ai tifosi più voce nella gestione dei club. Questa struttura preserva la cultura del tifo e protegge cose importanti come gli orari del calcio d’inizio, il costo della birra negli stadi o le coreografie.

Poi ci sono gli arresti e le ombre della criminalità come accaduto alla curva dell’Inter.

Non mi sorprende. La criminalità organizzata si è infiltrata in questi spazi perché il tifo è un buon affare. Il reclutamento è piuttosto facile. Essere un ultras significa anche opporsi all’autorità.

Fascismo e criminalità sono la normalità del calcio moderno?

Separiamo business e politica. Non c’è niente di più politico degli ultras. Cos’è un coro o una coreografia se non il modo con cui invii un messaggio, spesso politico, all’avversario, al resto dello stadio e del mondo? Ed essendo politico ci sono tutte le ideologie. La politica è costante, l’infiltrazione della criminalità organizzata non è così. Quando il Bocia andava allo stadio, i soldi della curva dell’Atalanta rimanevano nella curva.

Spesso comanda chi controlla lo spaccio.

Se riesci a gestire il traffico di droga significa che sei abbastanza potente e nessuno ti viene a rompere le scatole. Nei Balcani la situazione è peggiore. Ci sono gruppi di tifosi con milizie che hanno combattuto nella guerra civile jugoslava e hanno commesso crimini. A Belgrado la polizia ha trovato dentro lo stadio armi e fucili, stanze con video di pestaggi.

Ma c’è anche il volto della solidarietà.

Se rappresenti la tua comunità, la ami e la supporti. Se c’è una calamità naturale o una tragedia ci si aiuta. C’è una moralità in questo, non importa il tuo ideale politico. Ho visto gruppi opposti della stessa città aiutare in caso di fatalità.

C’è un linguaggio universale?

Mi contraddirò. È omogeneo, ma anche eterogeneo. Cioè, da un lato è pazzesco andare in giro per il mondo e incontrare gruppi che hanno nomi in italiano e si vestono come gli ultras italiani. Ma a questo si aggiunge la cultura locale. In Marocco il Raja Casablanca canta la povertà, l’abuso di droghe, la Palestina.

Come l’ha ottenuta la fiducia negli spalti?

Non mi infiltro, dico sempre la verità. Ma ci sono voluti dieci anni, bisogna avere pazienza e buone raccomandazioni. Se segui le regole si crea fiducia.

Il gruppo che l’ha impressionata di più?

Domanda difficile. Probabilmente sono gli Ahlawy. Li ho visti nascere, alcuni di loro andavano in Italia a studiare e tornavano al Cairo influenzati dalla cultura del tifo italiano. Hanno partecipato anche alla rivoluzione egiziana del 2011, subendo la repressione della polizia.

Esiste il calcio senza ultrà?

Se vogliamo vedere qualcosa che abbia un cuore e un’anima, no. Ma ho notato una sorta di estetica dell’ultrà in posti che non ne hanno mai avuti. Così nascono gruppi di tifosi sostenuti dal club, ma che non possono mandare alcun messaggio politico.

Può vedere un ultimo derby: quale?

Probabilmente quello del Cairo tra Ahly e Zamalek.

© Riproduzione riservata