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- In questi quattro anni trascorsi a singhiozzo sui suoi romanzi mi sono detta che, dopo tutto, è una vita che traduco Jane Austen. È una vita, cioè, che sto seduta accanto a qualcuno che non c’è.
- Tradurre la scrittura di Jane Austen è difficile per il peso che il suo fragile carico porta con sé, perché ogni lettore – e i suoi sono una moltitudine agguerrita – ha forti attese e ostinate idiosincrasie riguardo alle sue storie
Se, come magnificamente scrive Andrea Zanzotto, ogni lingua rappresenta «il massimo inconchigliamento» che una comunità di parlanti raggiunge e si manifesta in un brusìo instabile e infinito che di quella lingua è l’essenza, allora al centro della conchiglia inglese, al cuore del suo brusìo e insieme a Shakespeare, danzano i romanzi di Jane Austen.
Alla traduzione ideale chiediamo di essere per noi il lettore ideale che non possiamo essere: esperto ma non smaliziato, contemporaneo ma vicino alla sensibilità linguistica e culturale del testo fonte. Ogni traduzione si sforza di realizzare un impossibile. E fallisce.
A un certo punto, in questi quattro anni trascorsi a singhiozzo sui suoi romanzi mi sono detta che, dopo tutto, è una vita che traduco Jane Austen. È una vita, cioè, che sto seduta accanto a qualcuno che non c’è. Questa incommensurabile assenza è la lezione del maestro che Jane Austen non smette di impartirmi. Tradurre la scrittura di Jane Austen è difficile per il peso che il suo fragile carico porta con sé, perché ogni lettore – e i suoi sono una moltitudine agguerrita – ha forti attese e ostinate idiosincrasie riguardo alle sue storie; perché la sua scrittura è magistrale e moltiplica gli inciampi del mestiere, ma forse soprattutto, perché Jane Austen sfugge a ogni nostra volontà di costruirci un’opinione su di lei.
Perché dopo quasi milletrecento pagine di lenta, lentissima lettura dei suoi testi non saprei affatto dire come Austen la pensasse sui massimi sistemi e, in fondo, nemmeno sulle piccolissime cose. Saprei immaginare i pensieri di Mrs Bennet su svariati temi e prevedere gli slanci e gli entusiasmi di Marianne Dashwood; saprei quale libro regalare a Natale a Catherine Morland, di che cosa chiacchierare a lungo con Fanny Price e quando farmi invitare da Mr Knightley a mangiare le sue fragole, ma la verità è che niente di tutto ciò che ho imparato sulle voci, i difetti, le meraviglie e le rendite dei personaggi di Austen mi ha avvicinata di un millimetro a lei. Può darsi che sia stato proprio questo a spingere ogni generazione di lettori a inventarsi una Jane Austen diversa – signorina perbene e divertente, maestra di romanzo di maniera, prodigio di mozartiana effervescenza, protofemminista, autrice di inattesi metatesti – proiettando su di lei, o meglio sui suoi sei romanzi perfetti, le aspettative di tempi, luoghi e circostanze che non le appartengono.
Dunque come, con che coraggio, ho potuto affrontare la sfida di questa traduzione sapendomi perduta in partenza? Beh, dice Umberto Eco che tradurre è «dire quasi la stessa cosa» e questo consegna il traduttore al suo destino ironico. Basta mantenersi nella consapevolezza che stiamo accerchiando un brusìo, e ricordare che abitiamo lo spazio dello scacco.
Ma che cosa avevo io da offrire a un testo di Austen, mi sono domandata? Un lungo percorso, molti anni di mestiere, la condizione credo molto rara di aver tradotto per due volte nella vita il suo romanzo culto, Pride and Prejudice. E poi, forse, parole, personaggi e storie degli altri autori che ho tradotto. Avevo, ad esempio, la Briony Tallis di Espiazione da offrire a Catherine Morland: due ragazzette sveglie e influenzabili, due sognatrici pericolosamente inclini a commettere errori madornali. Non può essere un caso che Ian McEwan abbia scelto proprio Catherine per l’epigrafe di quel romanzo.
I personaggi che ho tradotto conversano nella mia lingua, a volte si accavallano e mi inducono in errore, a volte mi suggeriscono preziose soluzioni. Ho gli esercizi alla sbarra sulla grammatica impeccabile di Kazuo Ishiguro da tenere a mente per affrontare i «cieli color tortora» di Mansfield Park, e soprattutto ho le centinaia di ragazze e di donne delle storie di Alice Munro. Non per somiglianza le ragazze di Austen parlano a quelle di Munro, anzi. Ma per eccellenza di stoffa; la vecchia Alice con le sue piccole città immaginarie sepolte sotto la neve canadese, la giovane Miss Jane, con i suoi balli, le sue terme di Bath.
Tradurre un classico aumenta il numero delle comunità di appartenenza del traduttore. Mi spiego. Quando traduco McEwan, Strout, Ishiguro, io sono sola con il mio italiano; mi posso agganciare alla comunità dei traduttori in altre lingue, ma “l’italiano di McEwan” sarà temporaneamente solo il mio. Che succede quando traduco Austen? Che, prendendo ad esempio Sense and Sensibility, mi troverò in compagnia di Evelina Levi, Enrica Castellani, Beatrice Serra, Rosanna Sorani, Stefania Censi, Pietro Meneghelli, Franca Severini, Monica Luciano, Luca Lamberti, Giuseppe Ierolli, Renato Chiaro, Marianna d’Ezio, Beatrice Masini. Per non parlare di Pride and Prejudice nel cui caso l’elenco si allunga di una decina di nomi. Esistono insomma una comunità diacronica e una sincronica alle quali io mi accodo e mi aggrego.
Noi, membri della comunità dei traduttori ci influenziamo a vicenda, ci innervosiamo a vicenda, ci sosteniamo, ci mettiamo paura, ma condividiamo un modo e un tempo passato su uno o più testi di Jane Austen. Quello che accade alla nostra relazione con quel testo dipende per tutte noi e per tutti noi dal tempo e dalle parole, dal tempo delle parole. Qualunque sia l’atteggiamento di partenza rispetto al testo, vuoi di entusiasmo come di spavento, di meticolosità filologica o di volontà innovatrice, credo che a tutte Austen riservi la sua allegra impenetrabilità e abbia impartito una lezione. Il suo magistero è linguistico e come tale ci riguarda. Condivideremo un modo della lettura del testo che non potrà essere antologico, perché sarà stato il procedere lento e faticoso sulle frasi, una dopo l’altra. Saremo pronte a ricordare passaggi come quello che in Sense and Sensibility descrive la comparsa di un giovane impegnato nell’acquisto di un portastuzzicadenti in avorio e madreperla:
Stava ordinando per sé un astuccio portastuzzicadenti, e finché non ne ebbe precisato misura, foggia e decori, come da ultimo avvenne, in base ai dettami della sua sbrigliata immaginazione, non ebbe il tempo di dedicare alle signore se non tre o quattro lunghe occhiate; un genere di atteggiamento che impresse in Elinor il ricordo di una persona e di un viso dai robusti connotati della più pura insignificanza, seppure acconciati all’ultimissima moda.
Parecchie righe di intarsio grammaticale per introdurre uno sconosciuto destinato a sparire subito dopo, inghiottito dalle ben più significative attese di Marianne, dai ben più rilevanti segreti di Elinor. Quella frase a noi sarà costata la fatica improba di tenere insieme ogni cosa con una sola gugliata di parole. Ma che meraviglia, trovare risarcimento al nostro sforzo, scoprendo che lo sconosciuto è in effetti Robert Ferrars, l’avido e innocuo deus ex machina che risolverà l’esistenza di Elinor sposando Lucy Steele.
O ancora, questa frase, dalle prime pagine di Northanger Abbey:
Mrs Thorpe tuttavia aveva, conversando con Mrs Allen, il notevole vantaggio dei figli e, quando prese a dilungarsi sul talento dei maschi e la bellezza delle femmine – quando specificò le occupazioni e le prospettive di ciascuno – di John a Oxford, di Edward alla Merchant Taylors, e di William in Marina, aggiungendo che erano ben voluti e apprezzati ciascuno nel proprio ambiente più di qualsiasi altro terzetto di esseri viventi, Mrs Allen non poté ricambiare con informazioni analoghe, né analoghi trionfi da infliggere alle orecchie svogliate dell’amica, e fu costretta a sedere e fingersi in ascolto di tutte quelle effusioni materne, consolandosi tuttavia con la constatazione che, come il suo occhio acuto non tardò a registrare, il merletto sulla mantella di Mrs Thorpe non era bello la metà del suo.
È nella monumentale irrilevanza della vita e di consolazioni come questa di un merletto scadente sulla mantella di un’altra donna che si annida il genio di Jane Austen e l’inarrivabile efficacia del suo brusìo. Scoprirlo procura una gioia riservata non esclusivamente, ma particolarmente alla comunità dei traduttori. Esitare a lungo sui suoi testi a me ha offerto l’opportunità di percepire una temperie grammaticale che muta di romanzo in romanzo; una rivelazione che mi ha procurato uno strumento interpretativo inatteso oltre a un’autentica felicità professionale. Studiare le parole di romanzi come Northanger Abbey, Sense and Sensibility e Pride and Prejudice, mi ha permesso di sentirne l’atmosfera sintattica; nel paradosso continuo delle pagine di Northanger Abbey piovono le innumerevoli consecutive a vocazione comica di Jane Austen, periodi in cui la proposizione secondaria afferma qualcosa di irrisorio rispetto alla promessa delle principale.
Mentre, per differenza di clima narrativo, ho registrato in Sense and Sensibility una tendenza alla concessiva, come se in quel romanzo le cose si verificassero “nonostante”. Chissà quali epifanie grammaticali mi riservano Emma, Mansfield Park, Persuasion. La lettura non basta a pronosticarlo; da questa distanza Mansfield Park mi sembra il romanzo delle causali implicite ed esplicite, ad esempio, ma ho imparato a non cercare di intuire quello che solo la pratica della traduzione mi potrà mostrare. Tutto questo lavorìo della mente non salva dal continuo senso di inadeguatezza che accompagna il traduttore di Jane Austen, ma consola le giornate e ricompensa la fatica.
C’è prima di tutto il testo, c’è Austen, c’è la comunità militante dei lettori, e poi c’è questa cerchia di sospettosi amici alla quale per immensa fortuna apparteniamo. Austen rimane inattaccabile e pronta al prossimo assedio. Ci sbaglieremo ancora sul suo conto e sui suoi testi, ma lavorare sulle sue parole ci dirà sempre qualcosa che stavamo cercando.
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