- Jason Martin, nato nel 1970 a Jersey, l’isola più grande nel Canale della Manica, è uno dei pesi massimi della pittura astratta contemporanea.
- Le prime opere di Martin sono quadri di un colore solo, a olio o acrilico, disteso su superfici di alluminio, acciaio o plexiglas con spatole o pettini che creano superfici vorticose e ipnotiche.
- Martin ha un modo tutto particolare di raccontare la storia della pittura del Novecento. Lo fa usando le parti del corpo.
«Al campione dei pesi massimi Tyson Fury è stato domandato quali fossero le celebrità del passato con cui vorrebbe bere una birra al pub. Il pugile ha risposto: Eric Cantona, Gesù Cristo ed Elvis Presley. Se lo chiedessero a me sceglierei Lucio Fontana, Jackson Pollock e Yves Klein».
Jason Martin, nato nel 1970 a Jersey, l’isola più grande nel Canale della Manica, è uno dei pesi massimi della pittura astratta contemporanea. I tre nomi che cita, come proprio pantheon artistico personale, sono anche una dichiarazione di poetica. Anche se, all’inizio degli anni Novanta al Goldsmith College di Londra, culla della generazione degli Young British Artists, l’opera che insinuò in lui il seme della ricerca artistica è un quadro dell’artista americano Robert Ryman.
«Il dipinto completamente bianco era composto da cinque bande di colore larghe una spanna, probabilmente realizzate con cinque movimenti ininterrotti del pennello. Erano la traccia di un gesto che si è svolto in un lasso di tempo, delineavano una cornice temporale entro la quale il colore era stato steso sulla tela. L’idea mi piacque e cominciai a provare a svilupparla. Era un lavoro sul tempo, in fondo, e riguardava il perché siamo qui ora».
La pittura che diventa scultura
Le prime opere di Martin sono quadri di un colore solo, a olio o acrilico, disteso su superfici di alluminio, acciaio o plexiglas con spatole o pettini che creano superfici vorticose e ipnotiche. A volte sembrano la trama di un disco in vinile impazzito, in cui i solchi non sono più concentrici, ma tracciati con voluttuosa eleganza per produrre vibrazioni visive di una misteriosa musica silenziosa.
Nero, rosso acceso, blu metallizzato, bianco. La luce che si appoggia sul colore esalta la dinamicità della superficie di colore. Col tempo la sua ricerca si sposta sull’utilizzo di impasti di pigmento puro, che viene applicato su pannelli modellati, in cui l’esasperato effetto scultoreo sembra ingigantire le contorsioni di materia su una tavolozza increspata di colore. Negli ultimi anni, poi, l’artista ha anche creato opere in metallo specchiante (rame, argento e oro), realizzate attraverso calchi dei quadri, in cui la pittura materica si fa vera e propria scultura.
Tropicalissimo
Le ultime opere, nate durante il periodo del lockdown, che l’artista ha trascorso nel suo studio nella campagna portoghese, esposte nella recente mostra, Tropicalissimo, alla galleria Mimmo Scognamiglio di Milano, sono soprattutto quadri di dimensioni ridotte, in cui viene utilizzato più di un colore.
«Si tratta di una serie di dipinti che sono un po’ una sintesi delle vie che ho iniziato a percorrere durante il tempo della pandemia, in cui ho lavorato a ruota libera, senza le pressioni dei tempi del mercato dell’arte», spiega Martin: «Ho seguito un atteggiamento giocoso e sperimentale, nel tentativo di conquistare terreno dentro l’ambito de mio linguaggio pittorico».
Fasce di colore parallele, stese con una spatola ruvida, in cui i toni si fondono a formare sfumature atmosferiche. Dal rosa al rosa pallido, poi il giallo che diventa un tenue verde pistacchio. Oppure trame verticali di giallo che si impastano, nella pennellata, con un’anima di rosso, producendo aloni arancioni. Altrove, a mescolarsi, sono l’azzurro e il bianco. O ancora il verde e il giallo. L’uscita dallo stretto cerchio del mondo monocromatico sembra aver spalancato al pittore la porta della suggestione figurativa.
«Mi sento un pittore di paesaggio travestito da astrattista», spiega sorridendo. Le masse di colore e la composizione delle forme portano l’immaginazione dello spettatore a ricomporre nella propria mente immagini naturali. Tramonti, vegetazione, fiamme, acqua, ghiaccio, nebbia. «In pittura, questo è quasi inevitabile, anche quando siamo nell’ambito dell’astrazione», continua Martin: «L’aveva capito già Leon Battista Alberti: la pittura ricrea sulla superficie l’illusione della profondità. Siamo abituati a vedere qualcosa che va oltre il piano della tela. Il quadro è una soglia dove si realizza una dialettica tra superficie e illusione. E la sfida è guardare attraverso, vedere oltre».
La dialettica tra opposti
Martin ha un modo tutto particolare di raccontare la storia della pittura del Novecento. Lo fa usando le parti del corpo. «Gli artisti di inizio secolo dipingono muovendo il polso. Braque e Picasso, per realizzare i loro quadri cubisti, tracciano segni articolando i movimenti con il gomito. De Kooning, con la spalla, traccia pennellate ancora più ampie. Infine Pollock appoggia la tela per terra e dipinge con tutto il corpo. Anche Fontana usa un linguaggio gestuale. Yves Klein getta tutto se stesso nel vuoto dell’opera. Ecco, io mi sento parte di questo club».
Eppure, è lo stesso pittore a riconoscere un debito anche verso il minimalismo: «Sì, ma è come se avessi trovato una mia via personale che unisce l’espressionismo astratto, l’action painting, e l’arte che ha voluto eliminare ogni traccia del corpo. È come se avessi riempito il vaso vuoto del minimalismo».
Sembra questo il filo conduttore che lega tutta l’opera di Jason Martin che, a ben vedere, si è evoluta sensibilmente nei quasi trent’anni di carriera: la dialettica tra opposti. Astrazione e figurazione, espressionismo e minimalismo, pittura e scultura. «Non penso che, nel tentativo di evolvere il mio linguaggio, abbandonerò questa strada, è l’unico modo che ho di dire qualcosa di interessante per sviluppare un mio personale vocabolario pittorico».
Quadri al contrario
Ma sulle spalle dell’artista pesa anche un’altra eredità, quella che gli viene dall’aver partecipato a Sensation, la mostra che il collezionista Charles Saatchi realizzò nel 1997 alla Royal Academy di Londra (poi volata a New York e Berlino) e che consegnò alla storia gli Young British Artists.
Parliamo di Damien Hirst, Tracey Emin, Sara Lucas, Jenny Saville, Marc Quinn, i fratelli Chapman e altri ancora. Tra loro c’era anche Jason Martin. «Ricordo che in mostra appesero i miei quadri al contrario… Che, per opere come le mie, non è un problema grave… Se il quadro è buono, funziona lo stesso. Fu una grande opportunità, anche se – pur anagraficamente vicino a quel gruppo (Hirst ha cinque anni più di me) – non mi sento di appartenervi. È una vicenda dentro cui sono finito dentro senza volerlo».
Se quegli artisti erano visti come l’espressione di un ritorno al realismo attraverso la chiave dello shock, era evidente che Martin non fosse della partita. «È chiaro che, dal punto di vista mediatico, il mio lavoro non poteva competere con lo squalo in formaldeide. La mia è un’altra strada. Anche se ho molta stima del lavoro della Emin o della Lucas, ad esempio. Ma di quella generazione chi sento più vicino è Ian Devenport che, all’ultimo, fu escluso dalla mostra di Saatchi».
Un esercizio spirituale
La pittura di Martin è molto più silenziosa, intima, rispetto al fragore dell’arte inglese che ebbe successo in quegli anni. E lui se li ricorda bene i suoi compagni al Goldsmith, tutti impegnati a trovare il proprio modo per realizzare le installazioni che spopolarono negli anni seguenti. «Ero uno dei pochissimi a dipingere», spiega: «Lì ho conosciuto Steve McQueen, il videomaker, oggi regista premio Oscar di 12 anni schiavo. Anche lui aveva iniziato dipingendo».
Come nella tradizione della pittura astratta, anche per l’artista inglese il proprio lavoro ha una spiccata dimensione spirituale e meditativa. E anche per questo, forse, già a 24 anni scrisse al conte Giusesppe Panza di Biumo per offrirgli di collezionare le proprie opere.
«Ma non mi rispose mai. Forse perché mi distanziavo troppo dal gusto minimalista che lui prediligeva. Ma anche per me dipingere è un esercizio spirituale. Nasce dall’esigenza di trovare il mio posto nel mondo e, allo stesso tempo, di provare a lasciare una traccia per quando non ci sarò più. Ricordo quell’astronauta che, guardando la terra dallo spazio, la copriva dalla propria vista allungando il pollice davanti agli occhi. E diceva: tutto ciò che conosco è dietro al mio dito. Tutto il resto mi è sconosciuto. È un’enorme sfida metafisica. Chiunque si domanda: “Dove siamo? Cos’è Dio? Chi è Dio?" E tutte queste cose. Io sono un’anima ancora giovane, ho ancora tanto da imparare. E il mio dipingere ha a che fare con questo».
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