- Quando Megan Phelps-Roper ha annunciato l’uscita del podcast, The Witch Trials of J.K. Rowling, il vento dell’accanimento è tornato a soffiare sul fuoco della questione della presunta transfobia della creatrice di Harry Potter
- Alla notizia dell’uscita del podcast, la maggior parte dei commentatori ha approfittato per reiterare le proprie posizioni, estremamente favorevoli o estremamente contrarie rispetto a quelle espresse da Rowling
- Ma la novità nell’operazione stava nel tentativo della scrittrice britannica di far uscire le sue opinioni dal ring di Twitter
«Guardarsi le spalle», scriveva George Plimpton attribuendo le parole a Truman Capote nella sua monumentale biografia del 1999, «è un buon modo per non vedere chi è pronto a pugnalarci al petto». A Capote piaceva esagerare, ma era anche molto ben cosciente dell’ambiente nel quale sguazzava immerso fino al collo e della capacità devastante dell’opinione altrui.
Le acque travagliate nelle quali nuotava erano quelle dell’editoria e del giornalismo letterario americano degli anni Sessanta e il rischio costante e concreto era quello di perdere tutto – fama, rispetto, considerazione –, e a volte mettere a repentaglio la propria sicurezza da un momento all’altro, per una parola storta rivolta alla persona sbagliata.
Nel bene o nel male, la musica non è cambiata poi tanto. Editoria e giornalismo restano, partendo dagli Stati Uniti ma ormai per estensione in tutto l’occidente anglofilo e interconnesso attraverso il web e i social, una terra punteggiata di piccoli fuochi che in alcuni casi possono trasformarsi in incendi di grandi proporzioni e roghi mediatici più o meno giustificati.
Quando la scrittrice e attivista Megan Phelps-Roper ha annunciato l’uscita del suo nuovo podcast, The Witch Trials of J.K. Rowling, il vento dell’accanimento è tornato a soffiare su uno dei falò più fiammeggianti degli ultimi anni: la questione della presunta transfobia della creatrice di Harry Potter e la sua incessante autodifesa via Twitter.
La conversazione
Con la decisione di condurre le nove ore di conversazione che poi si sarebbero trasformate nel podcast, Phelps-Roper sapeva per esperienza diretta con cosa avrebbe avuto a che fare. È cresciuta in una comunità battista del Kansas fondata da suo nonno e nota per essere tra le più accanite e feroci piccole chiese non affiliate di stampo estremista d’America, la Westboro Baptist Church.
Da strenua difenditrice dei valori cristiani fino agli anni Dieci del Duemila Phelps-Roper si è scagliata, con il ruolo prima di giovane portavoce e poi di segretaria della congregazione, contro gli ebrei, i musulmani, i gay (con tanto di magliette e sito internet che illustravano quanto “essere frocio” sia un peccato mortale), Justin Biber, Lady Gaga, e pure la stessa J.K. Rowling – in quanto promotrice della moderna stregoneria e non certo in difesa dei diritti delle persone transgender.
Gli strumenti della chiesa erano le manifestazioni, i comizi pubblici, i sit-in, ma soprattutto i social, luoghi dove la loro voce roboante e categorica poteva venire amplificata praticamente senza limiti attraverso la scarsa attenzione ai dettagli e l’imperante sete di opinioni e di schieramenti dei fruitori. Gli stessi dai quali passa la maggior parte del giornalismo di massa, al giorno d’oggi.
Poi è successo qualcosa: «Ricevevo minacce di morte praticamente ogni giorno», dice Phelps-Roper. «Ci ero abituata e, anzi, mi esaltavano in un certo senso perché mi davano l’idea di combattere contro un’ingiustizia. Ma ho cominciato a interrogarmi sulla legittimità delle idee che promuovevo quando ho trovato persone che, anziché rispondermi con la stessa rabbia che io riservavo a chi ritenevo contrario alle mie idee, si rivolgevano a me con gentilezza e comprensione». Così, come capita di rado e solo a chi sa fermarsi a riflettere, Phelps-Roper ha cambiato idea e ha fatto tesoro del suo passato.
Ha deciso di parlare con Rowling, che ha raggiunto in Scozia, e con alcuni dei suoi più accesi detrattori, perché pensava di trovarsi di fronte a qualcuno che, per via delle circostanze, avrebbe avuto bisogno di un’opinione gentile. Capote di fronte a Richard Hickock, meno il fascino per il morboso.
Un esercizio sterile
In pochi hanno preso in considerazione il valore diplomatico dell’operazione e, alla notizia dell’uscita del podcast, la maggior parte dei commentatori ha approfittato per reiterare le proprie posizioni, estremamente favorevoli o estremamente contrarie rispetto a quelle espresse da Rowling, nemmeno da Phelps-Roper, che raramente viene addirittura citata.
C’era chi gioiva sguaiatamente per la tanto agognata (e mai avvenuta) riabilitazione in toto dell’autrice scozzese, e chi invece sbraitava per l’ennesimo (inesistente) attacco alla libertà di genere.
Probabilmente un numero molto ridotto di questi opinionisti si era preso la briga di ascoltare qualche puntata del podcast, in cui avrebbe, ad esempio, sentito Rowling affermare: «È vero, godo del privilegio dei bianchi abbienti, ma questo mi costa quello di essere una donna, ed è il motivo per il quale continuo a lottare».
In pratica, il suo sentimento minoritario esternato e reso palese, che – anche senza prendere posizione – dovrebbe rendere evidente quanto lo schierarsi ciecamente dall’una o dall’altra parte della barricata sia un esercizio sterile, a meno che non si voglia semplicemente alimentare la polemica.
Schierarsi su tutto
E alimentare le polemiche, mentre su entrambe le sponde dell’Atlantico cadono teste, è un po’ il modo in cui la maggioranza del giornalismo culturale ha deciso di affrontare questo genere di questioni. Dopo che l’opinionista dell’Atlantic Caitlin Flanagan era stata messa alla gogna per un tweet in cui affermava che il tempo avrebbe dato ragione a Rowling in virtù del messaggio positivo dei suoi libri, che l’editorialista Hadley Freeman aveva lasciato il Guardian perché messa nella condizione di non poter condurre liberamente un’intervista all’autrice, e che altri giornalisti britannici e americani si erano trovati a ricevere minacce di morte rivolte a loro e ai propri figli per aver diffuso l’una o l’altra posizione, è venuto il turno della firma delNew York Times Pamela Paul.
Paul, in un op-ed pubblicato all’indomani dell’uscita del podcast di Phelps-Roper, sosteneva un’opinione ben precisa, ma anche molto ben argomentata: «Prendersela con Rowling non fa del bene a nessuno ed è, senza mezzi termini, un grave errore».
Paragonava, in un parallelo un po’ ardito ma al servizio della sua causa, il trattamento che sta subendo Rowling al recente attacco che è costato un occhio e l’uso parziale di un braccio al romanziere Salman Rushdie e sottolineava come puntare il dito contro gli scrittori sia un po’ come sparare sul pianista durante una rissa da saloon. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di specificare che si tratti di una pratica futile, ma si è dovuti ricorrere a cartelli dissuasori.
Per questo, come di recente è normale che sia, il Times è stato investito da una valanga di indignazione proveniente da tutti i fronti e Paul si è messa in pausa, dimostrando ancora una volta come il dibattito sia ormai sempre e in ogni caso destinato a uscire dalla pagina e difficilmente lo si possa controllare, anche trovandosi dalla parte della tastiera legittimata dalla firma.
«Non credo che esistano più opinioni neutrali», dice Paul commentando la vicenda e riflettendo, più in generale, sullo stato del giornalismo culturale americano. «Tutto è materia di schieramento. Forse è comprensibile in politica, ma di certo non in letteratura».
La tradizionale funzione neutrale della stampa, insomma, si è vaporizzata con l’opinione diretta e questo è piuttosto palese da diversi anni a questa parte. Che il giornalismo culturale, l’opinione letteraria e perfino la critica debbano risentire delle influenze dell’intorno al punto di venire esaltate o represse istituzionalmente, però, è ancora sorprendente. Non nuovo, ma sorprendente.
Il ring al mercato
Oltre all’approccio dichiaratamente parziale, benché benevolente, del podcast di Phelps-Roper, il grande elemento di novità incarnato dall’iniziativa sta nel fatto che per la prima volta Rowling ha deciso di parlare apertamente di fronte a un microfono di quanto le sta turbinando attorno, mettendo un punto a quello che probabilmente è stato il suo errore fondamentale: affidarsi solo ed esclusivamente a Twitter per esprimere la propria opinione. Certamente senza malizia, ma così facendo ha soffiato sullo stesso fuoco che avrebbe a più tornate desiderato soffocare.
Da quando il rapporto tra la stampa, storicamente mediatrice, e i social, storicamente amplificatori della voce di pancia, si è invertito trasformando la prima in veicolo dei secondi, anziché ricoprire il ruolo di equilibratore, si ha la sensazione di vivere in quello che ante-litteram Stephen King – colpito dalle critiche che lo accusavano di traviare le giovane menti – nel 1991 ha definito “un ring al centro di un mercato del pesce”, dove anche chi cerca di far valere la voce della ragione è costretto a gridare o menare le mani, cadendo dunque dalla parte del torto. E stare sul ring a picchiare è paradossalmente la scelta più legittima.
Se c’è qualcosa che la vicenda Rowling ha fino a oggi reso estremamente evidente, è che il mercato attorno al ring si è ingigantito e che le corde si sono spezzate, trasformando l’opinione in una costante lotta senza quartiere. Forse, cercare di portare la discussione su un piano più cauto, mettendo da parte l’ansia di essere sentiti da tutti contemporaneamente e cercando di dialogare poco a poco con ciascuno, come dice Phelps-Roper, potrebbe aiutare. Forse. O forse, semplicemente, nessuno ascolterebbe più.
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