- La forza del romanzo suona ancora più squillante oggi con il senso di ritorno al passato che la guerra in Ucraina porta con sé: ancora una volta le Carré scrive un romanzo sulla fine della verità come conseguenza della guerra
- E’ la storia di un giovane broker che lascia Londra per aprire una libreria in provincia e si trova a fare i conti con una famiglia di spie e una storia di segreti mai confessati che arriva dal passato
- Chiusa l’ultima pagina si ha la netta sensazione che l’autore de La spia che venne da freddo ci abbia lasciato uno dei suoi romanzi più belli e compiuti, anche se era stato lasciato volutamente incompiuto.
Adesso che la guerra, e non solo quella fredda, è tornata nel cuore dell’Europa, ci vorrebbe un John le Carré a cui chiedere lumi su cosa ci riserva il futuro ma soprattutto il perché, a un certo punto, ciclicamente, la politica, la diplomazia, i servizi segreti vanno in tilt. Purtroppo, però, le Carré, al secolo David Cornwell, non c’è più, è scomparso a 89 anni il 12 dicembre 2020, e ci dobbiamo accontentare del suo romanzo postumo, L’ultimo segreto, uscito in Italia pubblicato da Mondadori nella traduzione di Silvia Pareschi.
Chiusa l’ultima pagina si ha la netta sensazione che l’autore de La spia che venne da freddo, de La talpa, di Tutti gli uomini di Smaley, de La Tamburina, La Casa Russia, ci abbia lasciato uno dei suoi romanzi più belli e compiuti.
Il fatto è ancora più curioso se si pensa che il manoscritto era da tempo riposto in un cassetto e, scrive il figlio Nick nella postfazione, il padre ve l’aveva lasciato volutamente incompiuto: era come se questo romanzo breve contenesse una verità ultima che le Carré non se la sentiva di mostrare al pubblico. Leggendolo si capisce perché. Ma prima di arrivare a questo perché, che poi è in definitiva il suo valore, diciamo qualcosa della trama, senza scoprire troppo le carte.
Un maestro di tensione
In primo luogo, è bene dire che si tratta di un le Carré in purezza dal momento che – e anche questo probabilmente non è casuale – ricorda il suo primo capolavoro: La spia che venne dal freddo, uscito nel 1963 e che lanciò il nome del suo autore nel mondo. Si ritrovano infatti, in questo romanzo, la medesima forza dei caratteri in gioco, imperscrutabili, e il meccanismo dell’indagine interna ai servizi, che letterariamente è un espediente shakespeariano dove colpa, tradimento, segreto marciano su un crinale di inevitabile ambiguità.
Un ex broker di Londra, il trentenne Julian, si è ritirato a vivere in un paesino sul mare della east Anglia, dove apre una libreria e dove conosce i membri della famiglia Avon che abitano una sontuosa e vetusta magione chiamata Silverview. Sono una vecchia spia malata terminale, Deborah, il marito che anche lui in qualche modo ha operato nei servizi, Edward – di lontane origini polacche – e la figlia Lily.
Perché il vecchio malandato Teddy stringe amicizia con il più giovane Julian? Perché vuole fondare, nel seminterrato della libreria, un club letterario? Perché gli chiede di usare un computer dove catalogare i migliori titoli da comprare per la loro Repubblica delle Lettere? Perché un giorno lo manda a Londra con una lettera sigillata per una donna non più giovane ma ancora bellissima?
C’è un altro vecchio funzionario, di nome Proctor (uno di quei disincantati, polverosi e persino indulgenti spioni tipici di le Carré a cui tocca fare pulizia, e che al cinema hanno avuto il volto di Alec Guinness, di Gary Oldman, di Philip Seymour Hoffman), che segue questa storia da vicino.
Segue le ultime gesta del vecchio Avon, perché il vecchio Avon, forse, a un certo punto «ha preso una strada sbagliata» durante la guerra della ex Jugoslavia, è stato testimone della tragedia di una famiglia musulmana, si è legato a una persona, e chi è questa persona? Che peso ha ancora nella vita del vecchio Edward e cosa lo ha spinto a fare, negli anni?
Non diremo di più, perché anche in questo suo estremo congedo, John le Carré è rimasto il maestro di tensione che è sempre stato, e il bello è seguirlo cercando di capire via via come tutte le carte buttate sul tavolo a un certo punto si riordineranno con la massima naturalezza.
Che è, in definitiva, la naturalezza spietata della vita, ancorché di spie: dove una verità sola non esiste e dove tutti i calcoli razionali che una istituzione governativa può fare si sciolgono dinnanzi all’abisso dell’umana eccezione.
L’omaggio a Graham Greene
In questo senso, L’ultimo segreto è anche l’ultimo, quasi commosso omaggio a Graham Greene, l’autore a cui probabilmente le Carré deve di più, in termini di ispirazione generale e di risultati, vale a dire il perfetto mix che entrambi gli autori britannici, entrambi ex spie, hanno saputo realizzare tra romanzo politico e psicologico, tra affresco dei nostri tempi e indagine interiore. E c’è un romanzo in particolare, tra quelli greeniani, emblematico fin dal titolo e a cui L’ultimo segreto sembra rifarsi: Il fattore umano.
Tra i più belli e pessimisti di Greene, curiosamente anche Il fattore umano è stato un libro della tarda età, come questo di le Carré. Pessimista perché, mettendo in scena le gesta ultime di una spia che ha dovuto fare i conti con l’imprevisto che il cuore di un uomo e di una donna non possono evitare che accada, nello stesso tempo realizza una metafora di un mondo che si crede in equilibrio e che invece questo equilibrio lo perde. Ci sono però altri fattori che rendono L’ultimo segreto un capolavoro.
Da un lato il suo carattere testamentario, nonostante non sia esattamente l’ultimo scritto di John le Carré. Tuttavia, è un libro dove domina il sentimento della fine ed è proprio nel sentimento ultimo che lo scrittore porta in scena una discussa figura paterna, come è stato per lui, afflitto tutta la vita dall’ombra di un padre scomodo, bugiardo, dedito a truffe e maneggi, mai davvero conosciuto fino in fondo.
E non c’è niente da fare, il racconto ha questo solenne andamento di requiem, che è nello stesso tempo il requiem di un mondo che ha perso il controllo, e ciò suona più squillante proprio in queste ore, dinnanzi a ciò che sta avvenendo in Europa, la guerra in Ucraina, con il suo terribile senso di ritorno al passato, e che fa suonare inquietante ciò che le Carré scriveva anni fa nella sua autobiografia Tiro al piccione: «La regola numero uno della Guerra fredda è la seguente: niente, assolutamente niente, è ciò che sembra. Tutti hanno un secondo fine, a volte anche un terzo».
Il conto con gli errori del passato
Il romanzo di le Carré è dunque, ancora una volta, il suo eterno racconto sulla fine della verità che la guerra porta con sé. Come ha sempre fatto nei suoi libri, le Carré ha una clamorosa capacità di cogliere il momento, registrare i fatti prima che accadono e mostrare il conto che essi presentano a scoppio ritardato.
È impressionante leggere nel libro, proprio oggi, il peso che ha avuto l’ultima guerra combattuta sul suolo europeo in Bosnia ed Erzegovina, la pulizia etnica, i massacri di civili, il carico di sofferenza nascosta dietro il nuovo ordine. Ma il nuovo ordine, ci dice le Carré, è sempre un velo facilissimo da squarciare.
Fa impressione, a leggerlo oggi, quando scrive di come, sotto di noi, vi siano tunnel dove sono stoccate le testate nucleari. Ce n’eravamo dimenticati? Sembra volerci dire, con questo racconto crepuscolare e bellissimo, che gli errori del passato si pagano sempre, in brani romanzeschi che sono insieme anche brevi, fulminanti saggi di storia: «Secondo Florian, che scriveva sotto il nome di John Smith o qualcosa del genere, l’intero casino dell’Iraq è una creazione dei valorosi servizi segreti britannici. Perché? Perché le due spie britanniche più famose di tutti i tempi – T.E. Lawrence e Gertrude Bell – ne hanno tracciato i confini con la matita e righello in un solo pomeriggio».
Il Florian in questione è uno dei tanti nomi del nostro vecchio doppiogiochista, poiché per le Carré l’indagine su una spia che tradisce è nient’altro che l’indagine sull’uomo: «E una volta concluso tutto gli avrebbe chiesto francamente, da uomo a uomo: ma tu chi sei, Edward, tu che sei stato tante persone e hai fatto finta di esserne ancora di più? Chi troveremo, una volta rimossi tutti gli strati di travestimento? O sei sempre stato la somma dei tuoi travestimenti? E se è questo che eri, come hai fatto a sopportare un matrimonio senza amore, anno dopo anno, in nome di un amore più grande, almeno secondo Ania, che probabilmente non si sarebbe mai realizzato?».
E poco dopo, laconicamente, l’inquisitore stanco e vecchio pure lui, conclude: «A volte il matrimonio era solo una storia di copertura». Le Carré nutriva dunque una riserva a mostrare questo suo racconto pervaso di pessimismo, perché in fondo è il racconto della sconfitta di un’intera classe, di un mondo: «Il fatto è, vecchio mio – che rimanga tra noi, non dirlo agli allievi o perderai la pensione – che non abbiamo fatto granché per cambiare il corso della storia, non è vero?».
E poi conclude: «Detto tra noi, vecchie spie, credo che mi sarei reso più utile dirigendo un club per uomini. Non so come la pensi tu».
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