- Quando la mia vita era confusa i social mi hanno dato una bella mano. Ma quando ho capito di voler scrivere narrativa mi sono accorto che l’opinionismo compulsivo tramite un nervoso attivismo digitale entrava in conflitto con il mio desiderio.
- Il modo in cui oggi facciamo circolare idee e parole sui social tende a escludere l’effetto sorpresa: ognuno ripete il copione del suo schieramento. Così da diverso tempo ho cominciato a usare sempre meno i social per produrre opinioni.
-
Non tutto è politica, militanza: il pericolo che si nota in un dibattito culturale che procede per partigianerie istantanee e furibonde è quello dell’erosione dell’autonomia delle altre pratiche. Forse la letteratura, in questo tempo di scontri frontali e dicotomie blindate, è chiamata a tracciare piccoli tracciati possibili di riconciliazione.
Quando la mia vita era confusa e priva di direzione i social mi hanno dato una bella mano. Ero uno studente fuori corso, non avevo una lira, i lavori che facevo non mi piacevano. Senza un vero e proprio progetto – era il 2014, 2015 – ho iniziato a usare Facebook come piattaforma editoriale: scrivevo, e qualcuno a un certo punto si è accorto di me. Persone comuni e, a poco a poco, professionisti dell’editoria online. Da lì per alcuni anni mi sono mantenuto così: perlopiù articoli d’opinione, spesso poco concilianti, riottosi, punitivi.
Per quasi un decennio ho usato i social per perorare le battaglie legate all’identità: sono omosessuale, non sono a mio agio col genere assegnatomi alla nascita, ho iniziato a dirmi femminista quando ancora non era usuale farlo.
La mia voce a lungo si è legata alle contrapposizioni identitarie che riempiono le nostre bacheche. Poi, a un certo punto, un vago senso di disagio si è impossessato di me: è successo quando tra le mie mille passioni e vocazioni interrotte s’è fatta strada la scrittura.
Narrativa vs opinionismo
Quando ho capito di voler scrivere narrativa mi sono accorto che l’opinionismo compulsivo – che nel mio caso prendeva la forma di una sorta di nervoso attivismo digitale – entrava in conflitto con il mio desiderio di imbastire storie, possibilmente nuove, impreviste. Ho sentito che i margini di libertà che mi occorrevano erano più ampi di quelli che io stesso, in connivenza col contesto, mi ero dato.
Oggi su ogni questione siamo abituati a reagire prendendo posizione secondo una delle due grandi fazioni già esistenti: pro o contro, progresso o tradizione. In politica è normale che questo avvenga: nell’agire politico, nell’attivismo e nella militanza, si hanno degli obiettivi, e si batte sugli stessi tasti per perseguirli.
Si avanza verso il traguardo, lotta dopo lotta, non c’è tempo per guardarsi attorno, di lato, dentro: le sfumature e l’autocritica sono d’intralcio, la contraddizione un pericolo. La politica non è il territorio del pensiero obliquo: comprensibile, ma non tutto è politica.
Scrivo queste righe soprattutto per onorare il senso delle differenze: per provare a dire qualcosa della diversità delle pratiche a nostra disposizione. Una diversità da salvare già anche solo nel rapporto con la lingua: in politica (e nell’attivismo online) il rapporto col linguaggio è segnato dalla ripetizione, dal ritorno continuo delle stesse parole e degli stessi schemi (motti, slogan, parole chiave).
Tutto questo a un certo punto mi ha provocato un effetto simile a quello descritto da Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos. Bancarotta della parola, svuotamento della ricchezza semantica del mondo.
Ripetere un copione
Il modo in cui oggi facciamo circolare idee e parole sui social tende a escludere l’effetto sorpresa: ognuno ripete il copione del suo schieramento. Poiché l’eventualità del nuovo mi pare invece una riserva insostituibile per la scrittura creativa, da diverso tempo ho cominciato a usare sempre meno i social per produrre opinioni.
Nel tentativo di proteggere la mia possibilità di essere uno scrittore perlomeno decente ho fatto alcuni passi indietro (o di lato) rispetto al rigorismo identitario di questi nostri anni.
Qui credo ci sia un tema importante soprattutto per chi fa parte delle comunità marginalizzate: donne, persone lgbt o non bianche, corpi non conformi. Carmen Maria Machado nel suo Nella casa dei tuoi sogni (Codice edizioni) parla della necessità di creare personaggi queer disturbanti, negativi, persino odiosi, perché questo, scrive l’autrice, equivale a salvare la loro umanità, non riducendoli a delle funzioni di un progetto di correzione del mondo.
Direzione evidente ad esempio in Pajtim Statovci, giovane talento della narrativa finlandese di origini kosovare, che nei suoi due romanzi tradotti in Italia da Sellerio mette in scena protagonisti queer controversi, sadici, manipolatori, tutto fuorché eroici. E proprio sull’eroismo, mi permetto un ulteriore aggancio personale: Febbre, il mio primo libro, aveva riversato su di me un’aura che ha finito per risultarmi problematica, perché tutta positiva, ipervirtuosa.
Con Corpi minori, il mio secondo libro, ho perciò volutamente ricercato un movimento contrapposto che onorasse la complessità, e quindi la verità di ciò che tutti, in quanto esseri umani concreti, siamo.
Io, né in quanto autore né in quanto semplice individuo, sento di rispecchiare tutta quella forza morale proiettatasi dal mio libro d’esordio: sono pieno di parti faticose, a volte dolorose, per chi mi sta attorno.
Sono stato picchiato e umiliato in quanto gay ed effemminato, ma ho anche tradito e sono stato tradito, tratto male gli amici e lusingo utilitaristicamente i nemici, mento e dissimulo. Forse alcuni di quelli che avevano apprezzato Febbre troveranno il mio secondo lavoro deludente col suo protagonista insopportabile, ambiguo, scorretto: ma è proprio questa la direzione che volevo percorrere.
Non è tutto partigianeria
Non tutto è politica, militanza, dicevamo: il pericolo che si nota in un dibattito culturale che procede per partigianerie istantanee e furibonde è quello dell’erosione dell’autonomia delle altre pratiche, delle altre zone dell’esperienza.
Forse la letteratura, in questo tempo di scontri frontali e dicotomie blindate, è chiamata a tracciare piccoli tracciati possibili di riconciliazione, marcando i segmenti dove tutti possiamo rispecchiarci nella nostra, ora grandiosa e ora meschina, umanità.
Forse alla letteratura compete il piano che attraversa le differenze, il luogo – magari vergognoso o segreto – in cui tutti possiamo scoprirci semplicemente comuni, vicini. Gli algoritmi com’è noto premiano la contrapposizione identitaria, il pensiero binario: le terze vie, le soste riflessive, le intersezioni e le ambiguità vengono penalizzate.
Ma è proprio di questi elementi che si nutre l’organo dell’intuizione letteraria: tra i due contendenti che sempre ci vengono proposti, lo scrittore ha bisogno soprattutto di stare nel mezzo, al crocevia dove scorre la vita, coi suoi urti e le sue storture incorreggibili, i margini opachi e la possibilità di storie inaudite.
Il ruolo della letteratura
Non si tratta di difendere una sorta di estetismo fuori tempo massimo: la postura etica della letteratura esiste eccome, ma forse ha più a che fare con la disponibilità ad avvicinarsi alla vita per continuare a cogliere i punti in cui i conti non tornano, i moti del desiderio che sparigliano le carte.
Proprio il desiderio infatti è un tema oggi prezioso, perché eversivo rispetto a qualsiasi status quo. È il desiderio che ci rende irriducibili a una sola forma, a una sola posizione, sono i desideri che ci impediscono di prendere asfitticamente dimora in quei ruoli che oggi vorremmo fissi – il maschio contro la femmina, i queer contro gli etero, i giusti e gli impresentabili.
In questo senso la letteratura ci può mostrare come i ruoli spesso fluttuino e si sovrappongano, come spesso la vittima conviva – all’interno dello stesso individuo – col carnefice, il manipolatore con l’abusato, l’oppresso con l’oppressore.
Beninteso: i social hanno prodotto anche importanti cambiamenti positivi, per esempio nell’offrire visibilità e rappresentazione a identità/comunità sottomesse o violate. Ma insieme a questo hanno anche reso mainstream un approccio tipicamente adolescenziale, un’atmosfera sclerotizzata a quella specifica stagione spirituale della nostra vita.
Un approccio insieme volubile e assolutista, drammatico ed estemporaneo, ostile alle mezze misure. Per chi oggi ha interesse a coltivare l’immaginazione senza negare i diritti del mondo la sfida è forse allora quella di mantenersi aperti per le terze, quarte, quinte possibilità, tenere i piedi in moltissime scarpe, ovvero tutte quelle delle diverse pratiche di interazione col mondo, tra le quali rientra di certo anche quella dell’esplorazione letteraria.
Cani di Pavlov
Le neotradizioni dialettiche di oggi ci rendono tutti simili a cani di Pavlov, qualsiasi sia la fazione a cui apparteniamo: ribadiamo a oltranza il già detto come modo per posizionarci, incrementare il consenso, aumentare la visibilità.
È possibile allora che, per tutelare l’immaginazione e la scrittura che da essa discende, occorra mantenersi esposti allo sconosciuto, alla compromissione col desiderio, quella forza multidirezionale e spesso non qualificata dal punto di vista morale che tutto rimette in moto, che innalza e abbatte totem e stelle polari, anche solo per vedere com’è, qual è l’effetto che ne deriva, per poi magari farne oggetto di un’intima, perturbante condivisione.
© Riproduzione riservata