- Questo articolo fa parte di FINZIONI – il mensile culturale di Domani che puoi scaricare e leggere a questo link.
- Ho iniziato a scrivere da bambino e da adolescente tenevo diari in metrica. Quando il sogno di fare carriera accademica è entrato in crisi, il mio rapporto con la scrittura è ripreso anche attraverso i social.
- Il mio bisogno di raccontare è nato anche dall’aver subìto dinamiche di oppressione. Ma per scrivere storie impreviste ho bisogno di margini di libertà più ampi di quelli che io stesso mi ero dato.
Sono cresciuto nel più grande agglomerato di case popolari del nord Italia. Un comune di quarantacinquemila abitanti dell’estrema periferia sud di Milano con il tasso di abbandono scolastico più alto del nord. Un paese costruito in fretta, con materiali scadenti, tra gli anni ’60 e ’70, per accogliere il flusso migratorio dal centro-sud del paese. Molte persone con una storia e problemi simili, troppo simili, che hanno dato origine, nel corso degli anni, a un piccolo mondo a sé, molto vicino a Milano ma diversissimo. Sono stato lì, in quei cortili affollati di urla in dialetto napoletano e siciliano, un bambino sbagliato: tra gli spacciatori e le famiglie seguite dagli assistenti sociali sono stato un piccolo effemminato balbuziente, terrorizzato dal contatto con gli altri, figlio di due genitori di diciotto e vent’anni che hanno cercato di essere una famiglia ma hanno capito subito che non era possibile. Non sono cresciuto con mia madre e mio padre, ma con i nonni materni, semianalfabeti e segnati da una migrazione forzata che hanno vissuto come una deportazione. In quel posto i miei interessi, per i libri, il disegno, le eroine femminili, erano illegittimi.
Il mio rapporto con la scrittura ha iniziato a prendere forma presto: a otto, dieci anni scrivevo e illustravo, su quadernoni avanzati da scuola – l’unico modo per avere libri e quaderni era passare attraverso le richieste scolastiche, vissute comunque dai miei come un’odiosa ingerenza –, storie in cui le fate delle leggende inglesi e irlandesi, a cui disegnavo ali impreziosite da porporina o glitter, stavano assieme a reinterpretazioni di Striptease, il film con Demi Moore, e Sailor Moon e Giovanna D’Arco condividevano le linee narrative con Cicciolina e Moana Pozzi. Durante l’adolescenza tenevo dei diari in metrica, in cui i miei affanni sentimentali e sessuali – soprattutto una storia d’amore mai consumata con un orfano di padre eterosessuale, aspirante pittore, oggi fumettista da best seller – si traducevano in rime piuttosto accorate e stucchevoli. All’università ho studiato Filosofia col sogno di fare la carriera accademica: quando il sogno è entrato in crisi il mio rapporto con la scrittura è ripreso anche attraverso i social, in particolare usando ciò che era Facebook tra il 2012 e il 2015 come piattaforma editoriale. Accanto a micro-racconti impressionistici tratti dalle giornate universitarie e dalla mia tragicomica esperienza come insegnante di yoga, ho cominciato a utilizzare la vetrina dei social per raccontare l’oppressione che le comunità di cui faccio parte subiscono. Alcuni addetti ai lavori mi hanno notato e ho cominciato a mantenermi anche così, scrivendo su magazine e riviste lunghi e incendiari articoli d’opinione contro la tradizione sessista, omofoba e filo-cattolica della società italiana.
Il mio primo libro, Febbre, uscito nel 2019, e questo mese pubblicato anche negli Stati Uniti, va proprio in questa direzione: è un romanzo che usa in maniera dichiarata materiale autobiografico – il protagonista si chiama Jonathan Bazzi – e nei suoi capitoli si alternano due filoni narrativi: da una parte l’infanzia e l’adolescenza vissute tra i palazzoni di edilizia popolare, e dall’altra i primi sei mesi del 2016 in cui ho scoperto di essere sieropositivo.
Sono dunque nato povero, omosessuale, balbuziente, e a un certo punto ho contratto il virus dell’HIV: la visibilità ottenuta dal mio primo libro credo sia in profonda sintonia con le recenti trasformazioni offerte dagli spazi di rappresentazione – autorappresentazione – digitale. Questo è un tempo in cui, per fortuna, le comunità discriminate hanno trovato nei social un modo per manifestarsi e allearsi. I centri del dibattito si sono moltiplicati. Però a poco a poco è montato in me un senso di disagio, direi di imbarazzo, ed è di questo che vorrei parlare: è successo quando ho preso coscienza di volermi dedicare, dopo molte vocazioni interrotte, alla scrittura narrativa. Dopo qualche tempo ho iniziato a sentire che la letteratura e l’approccio militante ai temi dell’identità instillato dai social – che si traduce spesso in opinionismo compulsivo cumula-like – producevano attrito, erano forse tra loro incompatibili. E questa incompatibilità era all’interno di me.
Uno dei momenti in cui la contraddizione si è fatta eclatante è arrivato quando, l’anno scorso, ho pubblicato su uno dei giornali con cui collaboro un racconto sul desiderio di magrezza, in cui l’io narrante – che poteva facilmente essere sovrapposto alla mia persona – diceva cose come: «Lascio a voi la body-positivity, io voglio solo essere magro», confessando di comprendere e condividere le ragioni dell’inclusività pur covando, per il suo stesso corpo, un ardente, non negoziabile – a tratti forse patologico, prologo di un disturbo alimentare – desiderio di forme sottili. Questo racconto ambiguo – «comprendo razionalmente una cosa, eppure continuo a sentirne un’altra» –, disallineato con le istanze progressiste di Instagram, ha attirato le critiche degli attivisti digitali: alcuni ne hanno chiesto la rimozione, altri hanno fatto appello a un avviso per i più sensibili, un trigger warning, altri ancora si sono assembrati in esaltati sabba di insulti e maledizioni.
In un momento come questo in cui, su molti temi eticamente sensibili, tutto viene gestito secondo le modalità tipiche della propaganda politica – pro o contro –, il sentimento delle differenze tra le pratiche, e della loro autonomia, è a rischio. Il modo in cui oggi si parla di identità, e soprattutto di identità marginali, è infatti perlopiù legato a un’estensione dell’approccio della militanza, e quindi della politica. Ma la politica e l’attivismo hanno difficoltà – comprensibilmente – nello stare nell’ambiguità, nella compresenza degli opposti, nell’autocritica. Hanno un obiettivo, e per conseguirlo, avanzano, lotta dopo lotta, battendo sempre sugli stessi tasti, usando le stesse parole – motti, slogan, parole chiave –, coltivando una ripetitività di schemi mentali e di linguaggio che a un certo punto ha preso a farmi un effetto di inaridimento simile a quello descritto da Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos. Quando si cerca di modificare uno stato di cose ingiusto non è il caso di guardarsi troppo attorno, o guardarsi troppo dentro: la politica non è il campo dell’introspezione, né del pensiero obliquo, e probabilmente neanche della creatività. In politica non si deve fare confusione. Ecco, dunque, le ragioni dell’imbarazzo: il mio bisogno di raccontare è nato anche dall’aver subito dinamiche legate all’oppressione dei sistemi di potere tradizionali, eppure, dopo un po’, ho sentito che per poter essere uno scrittore quantomeno decente, per poter scrivere storie impreviste, avevo bisogno di margini di libertà più ampi di quelli che io stesso mi ero dato. Walter Siti mette in contrapposizione netta letteratura e impegno politico, e io non sono d’accordo, perché credo si possa fare letteratura anche usando la lente delle dinamiche di potere della tradizione, raccontando le ragioni e i rimossi delle soggettività oppresse, delle vittime, grandi autori e autrici l’hanno fatto, ma credo si possa fare letteratura anche in altri modi.
Forse è bene, dicevo, distinguere le pratiche, onorare il senso delle differenze: se è vero che nell’attivismo non si possono illuminare a dovere le contraddizioni e il male che, anche se siamo donne, queer o non bianchi, ci abita, è compito di altre pratiche farlo. È prerogativa di altre pratiche, principalmente di quelle creative, parlare ad esempio della fluttuazione dei ruoli, del fatto che tutti noi possiamo essere insieme vittime e carnefici, oppressi e oppressori, subire e far subire.
Il mio secondo libro, Corpi minori, uscito quest’anno, segue un monito contenuto nell’ultimo romanzo tradotto in Italia della scrittrice Carmen Maria Machado, Nella casa dei tuoi sogni, in cui a un certo punto si parla della necessità di creare personaggi queer scorretti, disturbanti. Scrive Machado: «Sembra un’idea terribile, ma in realtà è liberatoria: l’idea che queer non equivale a buono, puro o giusto. Ci meritiamo una rappresentazione delle nostre malefatte pari a quella delle nostre gesta eroiche, perché quando rifiutiamo l’idea che un gruppo di persone possa compiere delle malefatte stiamo rifiutando la loro umanità». Nessun essere umano, insomma, può essere ridotto a una funzione di un programma politico. E l’ho sentito sulla mia pelle: il mio primo libro aveva riversato su di me un’aura ipervirtuosa, eroica, tutta positiva. Ho cominciato a sentire un problema nel rapporto con la verità, perché io, come tutti – cisgender e transgender, etero e gay, conformi e non conformi, sani e malati – sono pieno di lati problematici, ingombranti, dolorosi per chi mi sta attorno. Sono stato picchiato e umiliato in quanto gay ed effemminato, ma ho anche tradito, ingannato, so essere invidioso, sadico, tratto male gli amici e lusingo i nemici: l’aver subito certe cose non mi ha reso un santino queer, né un guru, un modello. Le persone che vengono dai margini sono anzi spesso detonatori di rabbia e ambizione e desiderio di vendetta, possono essere pronte a molto, a tutto, non sono per nulla innocue. Dunque il mio secondo lavoro, continuando a ricorrere a sovrapposizioni autobiografiche, mette in scena un protagonista marginale, ma che, sulla spinta del desiderio del centro, manipola, mente, umilia. Alcuni lettori, amanti di Febbre, ne sono rimasti infastiditi, perché non hanno ritrovato una convalida empatica alle loro convinzioni: il protagonista del secondo romanzo sembra corrompere il sogno di emancipazione non violenta ipotizzato dal primo, ma disattendere me stesso e gli altri è, per me, un requisito centrale per poter continuare a scrivere.
In quest’epoca di polarizzazioni statiche e furibonde credo che la letteratura possa essere un’inaspettata, fragile pratica di “rinconciliazione disarmonica”: non per eliminare le controversie, ma anzi per continuare a mantenere lo sguardo sugli elementi conflittuali presenti in tutti noi, così da tracciare un piano di risonanze universali e non cedere alla tentazione di sovraestendere le regole del gioco della politica, della correzione estemporanea, sbrigativa del mondo. Oggi la letteratura mi sembra essere un modo particolarmente interessante e divertente per provare ad abitare le contraddizioni della natura umana altrove necessariamente occultate, e farne materiale creativo, rimettendo, magari anche solo in segreto, attraverso sussurri e sospetti, tutto sempre in discussione. Un antidoto cognitivo per salvarci dal delirio totalitario di purezza che rischia di stritolarci tra gli eserciti belligeranti del noi e del voi, che escludono ogni avventura conoscitiva, ogni imprevisto, ogni sorpresa. Forse alla letteratura compete proprio il piano che attraversa, taglia trasversalmente le differenze, quel luogo – magari sconveniente, compromettente, dunque radicale – in cui tutti possiamo scoprirci un po’ più vicini, rispecchiandoci nella nostra, ora grandiosa, ora vulnerabile e ora meschina, umanità.
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