Non c’è nulla di casuale nella scelta degli abiti per una donna che sta marciando verso la Casa Bianca. Con il suo stile la candidata si sta presentando come pronta a diventare Commander in Chief
«Sarai la prima a fare un sacco di cose. Ma assicurati di non essere l’ultima».
Se tua madre ti cresce così – educandoti non soltanto a farti strada, ma a spalancarla perché altre e altri possano percorrerla dopo di te – il senso di responsabilità ti entra nel dna. Ed è così che Shyamala Gopalan, da Madras, oggi Chennai, ha cresciuto sua figlia Kamala Harris, oggi vicepresidente degli Stati Uniti, domani forse la prima donna al mondo, per di più non bianca, nel ruolo di presidente.
Essere the first but not the last: vanno lette anche così le mosse di Kamala Harris. Perfino quelle apparentemente meno importanti, come la scelta degli abiti con cui si presenta in pubblico. Il vestito è il messaggio, invece – o almeno uno dei modi più efficaci di mandarne in un’epoca in cui poco si legge, moltissimo si “scrolla”. Il suo, rivolto a un pubblico non solo americano ma mondiale (chi sarà presidente degli Stati Uniti ci riguarda tutti), è questo: “Io sono affidabile. Responsabile. Competente. Perfetta per il ruolo”.
Lo sguardo
Da quando ha accettato la nomination democratica, ogni scelta di Kamala Harris viene scrutinata, ogni gesto fotografato. Lei ovviamente lo sa, e sta facendo un uso estremamente consapevole della moda. Per cominciare, ricorre con discrezione a una stylist: non può perdere tempo a scegliere vestiti né sbagliare. Memore, forse, del diluvio di critiche che le erano piovute addosso quando aveva scelto da sé come apparire sulla cover di Vogue US di febbraio 2021, appena diventata vicepresidente: giacca scura e pantaloni skinny, Converse e perle. Mise tutti d’accordo su una cosa: era uno sciatto pasticcio, un disastro comunicativo.
Così ora si affida alla stylist Leslie Fremar, perfetta per la parte: ha gli agganci giusti (e clienti come le attrici Charlize Theron e Jennifer Connelly) ma sa stare sottotraccia; ha solidi rapporti con Hollywood, che gioca il suo ruolo eccome, nella scelta di un presidente americano. Alla Fabbrica dei Sogni Harris è legata anche grazie al marito, Doug Emhoff, ex avvocato del mondo dell’entertainment, e alla figlia di lui, Ella, modella e stilista molto amata nello stesso ambiente.
Il salvavita
Se però vuoi convincere il mondo, sedurre Hollywood, e nello stesso tempo parlare credibilmente a elettori (anche) Black e Asian-american, il sentiero si fa stretto. È qui che arriva il salvavita delle signore della politica ai massimi livelli nel mondo: il tailleur pantaloni. Bipartisan come nient’altro: scelto da Hillary Clinton e Giorgia Meloni, Angela Merkel e appunto Harris. Perché è assertivo il giusto, femminile il giusto, pratico il giusto – e pudico: non consentirà a nessun colpo di vento di rivelare scorci che non è bene rivelare. Proclama affidabilità – che inauguri un G7 in Puglia o accetti la nomination alla convention democratica a Chicago.
La palette dei colori va di conseguenza: un po’ di nero e un po’ di grigio, qualche raro pastello, molto blu – qualche entusiasta l’ha definito “working class blue”, ma è più ragionevolmente un blue navy. Colori neutri, al limite del noioso, ma è tutto voluto: distolgono l’attenzione dal corpo e la concentrano sul viso. «Read my lips», leggetemi il labiale, disse un altro candidato in un altro discorso di accettazione: era George W. Bush, era il 1988, era il Partito repubblicano e lui prometteva “No New Taxes”, ma il bisogno dei politici di farsi guardare bene in faccia è sempre lo stesso.
Gli stilisti e i gioielli
Sulla scelta degli stilisti, però, il discorso si fa più sottile: nessuna retorica MAGA (Make America Great Again, lo slogan politico più noto di Donald Trump), Harris ha indossato designer europei, in particolare francesi come Chloé (al discorso di accettazione) e Celine by Hedi Slimane; stilisti black militanti come Christopher John Rogers e Sergio Hudson (il collettivo Designers for Democracy, di cui fa parte quest’ultimo, ha ideato una collezione di pezzi facili la cui vendita andrà in supporto della campagna del ticket Harris-Walz).
Nemmeno sui gioielli fa scelte banali: certo, le perle compaiono spesso, tradizionali e rassicuranti come un’American apple pie (non a caso nel 17mo episodio dell’11ma stagione dei Simpson Lisa, divenuta presidente Usa, è vestita in modo identico a Kamala Harris, perle e tailleur); ma i giornalisti che sanno di moda spesso le riconoscono addosso pezzi di Irene Neuwirth, marchio da insider del fashion, che piace alla gente che piace. Chissà come si dice “cerchiobottismo” in inglese.
Converse e silk press
E ai piedi? Le Converse (Chuck Taylor) le piacciono sempre, del resto il prossimo 20 ottobre farà 60 anni, è una late boomer che si penserà giovane sempre. Le alterna ovviamente alle scarpe col tacco, mai estremo: uno stiletto fetish stonerebbe allo Studio Ovale, ed è lì che è diretta.
Sempre che non la intralcino le idiozie scritte sulla sua acconciatura. Questa donna avrà forse in mano i dossier della guerra tra Russia ed Ucraina, della più grave crisi da anni in Medio Oriente, delle crescenti tensioni nel mar della Cina Meridionale, ma la rete impazzisce soprattutto per il suo “silk press”, che le giovani nere della Gen Z stanno adottando in massa. Il ribattezzato “Presidential Press” non è altro che la piega spazzola e phon che milioni e miliardi di donne si fanno nel mondo: rende lisci i capelli, ti dà un’aria ordinata, cosa apprezzabile che tu faccia l’insegnante o la premier. In più permette agli elettori di guardarti bene in faccia (vedi sopra), a differenza di una chioma riccia e ribelle.
Qualche anima bella ma soprattutto saputella ha rimproverato ad Harris di sprecare ore del suo tempo a adattarsi a standard estetici da bianca, e suggerito che farebbe bene a tenerli “afro”. Peccato che il suo dna sia per metà giamaicano ma per metà indiano, e che le donne indiane abbiano spesso sontuose chiome lisce. Peccato che tenersi in ordine costi un po’ di tempo a tutti, maschi e femmine and everything in between: fa parte anche questo del contratto sociale.
Moda uomo
Infatti, anche gli uomini devono preoccuparsi di come si presentano al mondo. J.D. Vance, candidato alla vicepresidenza con Trump, ha la barba. Fatti suoi? Macché, fa notare Politico, sono almeno 80 anni che non si ha un candidato alla Casa Bianca con peli sulla faccia, ma pare che Trump speri che gli elettori vedano nel vice «un giovane Lincoln». The Donald, dal canto suo, viene fiocinato un giorno sì e l’altro pure per come si concia: spalline delle giacche troppo grandi, nodi della cravatta troppo stretti, gamba dei pantaloni troppo floscia.
Quello che ha fatto bingo è il second gentleman, che forse sarà first. Doug Emhoff piace moltissimo, è diventato il simbolo sorridente di una mascolinità tutt’altro che tossica, progressista-femminista. Dopo il suo discorso alla convention democratica si è conquistato una fanbase (la “D-Unit”) che ne adora lo stile da «padre americano rilassato», scrive l’Atlantic. Qualcuno auspica per lui, in caso di elezione di lei, la copertina di Vogue America, finora tradizionalmente riservata alla first lady. Sarebbe un’altra prima volta assoluta. Dietro ogni grande donna c’è un grande uomo.
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