C’è un nuovo Marx in circolazione. Non il testo sacro su cui, nel secolo scorso, partiti, gruppi e movimenti hanno giurato e poi litigato, scindendosi come i virus di cui parlava il Bertinotti di Corrado Guzzanti in un famoso sketch.

Non lo spauracchio, profeta di un futuro di morte e oppressione, che liberali e conservatori amano evocare nelle peggiori crisi di vittimismo. Meno che mai il signore barbuto la cui immagine è stata trasformata (e neutralizzata) in icona pop, buona per magliette, meme e salvadanai.

Il Marx che sta emergendo dalla seconda, monumentale edizione tedesca delle sue opere – dal nome altisonante di MEGA2 (Marx-Engels-Gesamtausgabe) – mostra un profilo sorprendente, per nulla catechistico, lontano da schemi semplicistici e irriducibile a letture univoche e ortodosse o, peggio, ai modelli di società che hanno visto la luce nel suo nome.

La pubblicazione nei Millenni di Einaudi, come avrebbe desiderato Cesare Pavese, di una nuova edizione critica del primo libro del Capitale è l’occasione per fare un bilancio.

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L’opera cantiere

Che Marx fosse una figura molto complessa è cosa nota agli addetti ai lavori. Agli altri, lo aveva fatto capire qualche anno fa uno dei suoi più bravi studiosi internazionali, Marcello Musto, napoletano emigrato in Canada, in un’appassionante biografia intellettuale (Karl Marx. Biografia intellettuale e politica, Einaudi 2018).

In condizioni di solitudine e spaventosa miseria, tormentato, oltre che dai creditori, da grossi favi al sedere, infiammazioni agli occhi, pleuriti e problemi epatici, per tutta la vita Marx spese ogni risorsa intellettuale e fisica per consegnare agli ultimi della terra una teoria del capitalismo e del suo superamento all’altezza delle loro speranze.

Non palliativi solidaristici, millenarismi utopici o lamentazioni patetiche, ma una teoria scientifica dello sfruttamento. Il Capitale doveva fornire questo fondamentale strumento di lotta. E tuttavia, più che un’opera definitiva, fu un cantiere, che Marx non riuscì mai a chiudere, preso com’era dal tentativo di sciogliere l’enigma di una realtà che continuamente mutava e che quindi richiedeva aggiornamenti enciclopedici e tentacolari, spietati dubbi e ripensamenti.

Lo testimonia, fra tutte, la vicenda editoriale del primo libro, l’unico scritto interamente da Marx, concepito sulla scia del panico finanziario del 1857 e pubblicato nel settembre di dieci anni dopo infinite dilazioni.

Se si considera l’importanza di quest’opera nella storia del pensiero, le passioni che ha suscitato e la varietà di commenti di cui è stata oggetto, si capisce quanto coraggio e competenza abbiano dimostrato i curatori della nuova versione einaudiana, condotta sulla scorta della MEGA2, Stefano Breda, Roberto Fineschi, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’.

Si tratta della traduzione della quarta edizione del 1890, approntata da Engels con un ricco apparato di appunti, note e postille dello stesso Marx. Non certo una lettura leggera (parliamo di 1300 pagine), ma che, al di là delle migliorie terminologiche e di significative revisioni strutturali, sgombra il tavolo da vecchi sedimenti interpretativi per farci entrare in contatto con la forza viva del pensiero di Marx.

La missione della critica

Ma che cos’è Das Kapital? I curatori non hanno dubbi: una formidabile decostruzione della modernità europea, letta attraverso le sue forme sociali e produttive. È proprio questo il fuoco che anima tutto il lavoro di Marx: la critica, come indica il sottotitolo (“Critica dell’economia politica”). Una critica radicale che deve basarsi su una comprensione disincantata del reale, che non può accontentarsi di formulette enfatiche e oracolari.

Lo aveva capito anche Raymond Aron, un liberale intelligente, castigando i marxismi dilettanteschi di alcuni suoi colleghi, in primis l’amico-nemico Sartre: a Marx potevano bastare «qualche settimana e qualche pagina» per annunciare una società superiore, più giusta e umana.

E invece no: bisognava criticare tutto, sempre da capo, raccogliendo nuovi dati e informazioni. Di qui lo studio spasmodico di un’infinita di materie collaterali – geologia, chimica, agraria, statistica – che moltiplicavano approfondimenti e revisioni, esasperando moglie, amici e medici.

Non sorprende, quindi, che la MEGA2, entrando in questo labirinto fatto di appunti, manoscritti preparatori e versioni alternative, frutto di una curiosità intellettuale senza limiti, complichi non solo la natura dei grandi testi marxiani, dai Manoscritti del 1844 all’Ideologia tedesca, ma anche molte delle interpretazioni canoniche.

Leggendo i libri di Fineschi, Sgrò, Musto e dei loro colleghi, ad esempio, scopriamo un Marx agli occhi del quale la libertà e la fioritura delle essenze individuali contano tanto quanto l’uguaglianza, la gestione collettiva dei mezzi di produzione e la redistribuzione delle ricchezze secondo bisogni e capacità; un Marx per cui la struttura rimane fondamentale, ma che non deve aspettare Gramsci per rendersi conto che anche la sovrastruttura è un fattore di mutamento; un Marx consapevole che, fuori dall’Europa occidentale, le sue teorie non sono per forza valide, e che l’emancipazione può realizzarsi per altre, impensabili strade.

O, ancora, un Marx con molte cose da dire sul colonialismo e la questione ecologica.

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Il mondo e la storia

Insomma, c’è ancora spazio per un’attualità di Marx, come dimostra peraltro un libro recente di Clara Mattei, L’economia è politica (Fuoriscena, 2024), orgogliosamente militante, a tratti retorico, ma comunque interessante e provocatorio. Certo, è fin troppo facile insistere sui limiti di chi scriveva a metà Ottocento utilizzando le conoscenze e le mentalità di un’epoca ormai sideralmente lontana.

Primo fra tutti, la famigerata teoria del valore-lavoro, che avrebbe dovuto spiegare la natura dello sfruttamento e, a cascata, l’origine del plusvalore e l’inevitabile crisi del sistema di produzione capitalistico. Per molti, seguaci alla lontana dei marginalisti à la Pareto, un abbaglio, e così dicendo hanno pensato di aver archiviato Marx tutto. In realtà, i nuovi studi ci rivelano che le cose sono più complesse e il discorso è ancora aperto.

I tecnicismi però contano poco. Chiediamoci piuttosto: cosa ci può dire ancora l’edizione filologicamente aggiornata di un classico come Il Capitale, sottratto alla “critica roditrice dei topi”? Innanzitutto, rileggere questo capolavoro ci ricorda che la critica non è un gesto retorico frutto dello sdegno morale o di un bisogno di posizionamento: o è scientifica o non è.

E svolgerla è un compito infinito, impossibile eppure necessario. Si può sbagliare, e Marx ha sbagliato eccome, come tutti i grandi. Poco importa. Separando ciò che è autenticamente marxiano da ciò che è incrostazione marxista, mostrandoci un Marx instancabile critico del mondo e di se stesso, le nuove edizioni ci restituiscono il senso del suo lavoro, dell’ossessione che per tutta la vita ha inseguito: liberare il lavoro.

Da bravo hegeliano, Marx voleva far vedere l’Intero, la totalità dei meccanismi in cui siamo catturati, il sistema in cui tutto si tiene (curiosità: non usò mai la parola “capitalismo”).

Il Capitale è il monumento che rimane di questo tentativo lungo una vita di decifrare il mondo moderno, di dare una logica alla storia e una materia al pensiero, di mostrare la storicità, e dunque la politicità intrinseca, di come viviamo e produciamo.

E fa impressione rileggerlo, in un presente in cui le sfide sono enormi, la posta in gioco è niente meno che la tenuta delle nostre società e la politica langue, ridotta a un gioco di azioni e reazioni di piccolissimo cabotaggio. «La tradizione delle generazioni morte pesa come un incubo sul cervello dei viventi», scriveva il Moro, come lo chiamavano in famiglia, nel 1852.

La nostra mente è ancora capace di tornare alle origini della sua tradizione e, senza pregiudizi, ascoltarne la lezione? Di fronte alle sfide che ci aspettano, ci accontenteremo di piccoli rammendi o saremo capaci, anche noi, di guardare all’Intero?

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