Chiara: Forse per il lavoro che faccio per la maggior parte del tempo (leggere manoscritti), d’estate leggo un classico. La scorsa estate un classico contemporaneo, perché ho letto tutto Kundera, questa estate sono indecisa tra rileggere Anna Karenina, leggere tutta la Bibbia, o leggere Il Capitale di Karl Marx, o anche rileggere, ma sarebbe la terza volta, Vent’anni dopo di Dumas. Quando studiavo matematica leggevo per ogni anno accademico un autore e un’autrice, anche viventi, mi ricordo l’anno di Saramago e l’anno di Byatt. Mi chiedo adesso, mentre cominciamo questa conversazione, da un punto indefinito di tutte le nostre conversazioni, attuate, immaginate e interrotte, se non c’entra tanto il classico, il vivo o il morto, ma l’ossessione, una specie di ossessione catalogativa e speculativa. Improvvisamente penso che non c’è nessuna differenza – e mi pare chiaro che non debba esserci – tra l’ossessione per le rape rosse o il riso basmati (o le cozze, o la pizza bianca, o il gorgonzola) e quella delle letture estive, o monografiche durante l’università non c’è differenza. L’ossessione consuma tutto, rende brillante fino alle ossa?

Ginevra: Io mi rendo conto che tante cose non le capisco e altrettante le dimentico. Questo mi ha generato tante preoccupazioni e altrettante sindromi di inferiorità. Adesso invece mi sento abbastanza riposata negli spazi di questo non capire e dimenticare. Mi guardo intorno e penso “succede”. Come si farebbe per restare sani di fronte ai fenomeni non controllabili lascio andare.

In altre parole, guardandomi come una cosa diversa da me, osservo che sto perdendo interesse per l’ossessione, e la cosa mi diverte. Non ricordo più che cosa mi piaceva tanto del rovello. Men che meno dell’affanno.

Eppure corro, eccome se corro, e vado su e giù a destra e a sinistra, a piedi sugli aerei e sui treni e sempre con bagagli leggeri ma sempre che contengano dei libri. Adesso per esempio che sto per partire di nuovo nello zaino ho La mano sinistra del buio (Mondadori, trad. C. Reali) di Ursula K. Le Guin. Mi sa che non è un classico, però il fatto è che io i classici li leggo d’inverno. Per esempio, ricordo ancora quando a novembre e dicembre dell’anno accademico 2006/2007 ho letto Delitto e castigo per un corso monografico e ho pensato che grazie a Delitto e castigo quello era e sempre sarebbe stato un bel momento del vivere. Invece Oblomov l’ho sia letto che ascoltato perché quando non avevo tempo e dovevo lavorare con i turisti me lo mettevo in cuffia, in audiolibro. È successo un’estate che andavo e venivo costantemente per le calli di Venezia a prendere e trasportare esseri umani in ferie, pacchi di anime svuotate nei giorni vacanzieri come a tutti, prima o poi, capita di essere. Lo so che avevo detto che leggo i classici d’inverno ma Ursula K. Le Guin nell’introduzione a La mano sinistra del buio (ho le prove, è qua in borsa) dice che il compito di chi scrive romanzi non è prevedere, è mentire. Quanto è importante mentire?

C: Se mentire non fosse una forma di previsione, che funziona stranamente anche nel passato, altrimenti non esisterebbe la possibilità di rivederlo cercando di indurre un nuovo presente e un nuovo futuro, saprei rispondere. Invece non so rispondere. Per quella vecchia e insidiosa abitudine a non credere che niente sia perenne. E nessuna devozione sia immune alle critiche, alle revisioni, agli abbandoni. Insomma, niente è eterno e dunque la verità è un quando. Quando è la verità. E dunque la menzogna è un quando e così quando è la menzogna? Al netto che, come sai, ho difficoltà con i sostantivi, preferisco i verbi e gli aggettivi, gli avverbi pure, ma i nomi, chi li vuole i nomi. Comunque, non vorrei subito avvilire la conversazione. «La luce è la mano sinistra del buio» scrive U. K. Le Guin – teorica e scrittrice che amo molto – però tutti quanti sappiamo che nei racconti di fondazione nei quali siamo cresciuti – noi e tanti altri – La Bibbia, la mano sinistra di Dio non esiste. Rischia che la luce non esista. Come la mettiamo con cose evidenti – la luce lo è – che potrebbero, in fondo, non esistere? Penso che anche la luce è un quando. Quando è la luce? e così la sinistra e la destra – pensa le percentuali di operai e classi non agiate che hanno votato Rn in Francia – è un quando. Quando è la sinistra? Così, visto che non ho mai pensato che non capire tutto significasse essere in difetto ma semplicemente essere, torno alla mia vecchia idea dell’unico errore commesso – a mia memoria e finora da Shakespeare – e cioè che non siamo fatti da the same stuff of the dreams, ma da the same stuff of the time. Ma Oblomov, quanto pesava sulle spalle, così senza far niente, mentre andavi avanti e indietro come un Caronte dell’inferno veneziano, per le calli?

G: Non mi sento avvilita ma felice in quanto posso soffermarmi un attimo su uno dei miei argomenti preferiti: i farmaci.

Per essere precise userò i farmaci a guisa di metafora grossolana perché fa troppo caldo per le finezze (un caldo che definirei insalubre e sospetto, perché pure io preferisco gli aggettivi ai nomi) (per quanto, come ti ho certamente già detto o scritto, la mia più grande antipatia sia riservata senza dubbio ai cognomi). La menzogna droga un sistema di comunicazione e così lo manipola e così agevolmente prevede quel che crea (o che interpreta, quando guarda al passato). Come un farmaco è non di rado necessario. Ha natura antibiotica, salva con controindicazioni, non per niente bisogna leggere il bugiardino, che non per niente si chiama bugiardino.

Ma noi non stiamo parlando della realtà che è sopravvalutata e forse non esiste bensì dell’arte che rappresenta la realtà e della benedizione che sono le menzogne che rendono possibile lo spazio letterario che ci fa avere tutto, compresa la mano sinistra di dio (e compreso dio).

Oblomov invece a me non pesava per nulla, sottraeva anzi peso alle spalle. È il rappresentante di una classe sociale (quella dei proprietari di terre e anime nella Russia di metà Ottocento alle porte dell’abolizione della servitù della gleba) che sta perdendo potere e consistenza.

Con la sua immobilità Oblomov mi suggeriva due idee. La prima è che qualsiasi forma di autorità può perdere potere e consistenza. La seconda è che esiste la possibilità di sottrarsi alla corsa, esiste l’ammissione di non adattamento. L’opportunità di sottrarsi, il fatto stesso che esista più che la sua messa in atto, per me è galvanizzante.

È come se (in questa testa a questo punto evidentemente piena di cose insensate) Oblomov facesse un giro impossibile e ai miei occhi diventasse un ribelle del nostro tempo. Un tempo che chiede efficienza, risultati, produzione in crescita perenne, performatività, reattività costante, in cui stare fermi e non agire genera la più grande irritazione.

Attraverso momenti in cui mi beo nell’abbracciare il vuoto e mi cullo nell’idea che agire nel sistema serve solo ad aggiungere mattoni al sistema e non c’è modo di fuggire.

Un attimo dopo un amico mi consiglia di leggere Radicalized (Mondadori, trad. Dafne Calgaro) di Cory Doctorow e, in particolare, il racconto Pane non autorizzato, un racconto in cui poveri e marginalizzati agiscono sull’elettronica che li costringe a mangiare (e dunque acquistare) prodotti alimentari brandizzati. La modificano, la manipolano. Insomma, mentono per liberarsi. Leggo e torno a credere che c’è molto da fare e che si possa fare. Se è una bugia è bellissima. Dunque la crederò vera.

Chiara hai nominato Caronte, da Mann al tuo Così per sempre (Einaudi), è inevitabile associare Venezia alla morte? E questa città così decomponibile e a cavallo della quale vivi ormai da tanti anni ti ha mai fatto venire voglia di sfuggirle (o, al contrario, di sprofondarci)?

C: Improvvisamente, i pochi anni che ci distanziano – ammesso che la cronologia valga qualcosa – mi paiono un abisso. Mi ero dimenticata che avevo considerato Oblomov un ribelle e poi, a un certo punto, chissà quale, avevo detto che no, non poteva esserlo perché trattava troppo male il suo aitante, cameriere, servo di scena, come vogliamo chiamarlo. Oblomov per la sua ribellione aveva bisogno di qualcuno a servizio. Ma capisco cosa dici, e forse sono anche, di nuovo, d’accordo. Ho nominato Caronte, perché ci siamo incontrate, come tutti i rapporti che tendono a essere stabili dal primo giorno, su una fine. Su una morte. E non era nemmeno Venezia, anche se mi pare, da anni, che Venezia sia l’unica forma di morte, proiettivamente e definitivamente efficace, Venezia è la metamorfosi quotidiana, dai gusci abbarbicati alle fondamenta che somigliano alle greche di padiglioni auricolari in certe decorazioni secentesche, ai cefali giganti pescati nei canali che diventano lische nei piatti dei ristoranti, ai passanti sempre diversi e sempre uguali, dove il flusso cancella la singolarità. Venezia non mi fa venire voglia di fuggire, anzi, funziona come una palude, una sabbia mobile, dopo un po’ che ci sto continuativamente, bastano cinque, sei giorni, sento che non posso vivere da nessun’altra parte, e dunque che non voglio vivere da nessun’altra parte. In Così per sempre, il romanzo di Dracula mai estinto, è l’amore tragico del Conte, Mina, che vive a Venezia dove apre un salone di vampirizzazione non il conte. Per il Conte, ci penso adesso, la metamorfosi di Venezia forse non è abbastanza, cerca una velocità che Venezia non ha e non vuole. Ma non lo so, ci devo pensare. Torniamo alla morte, dal primo tuo romanzo che abbiamo pubblicato insieme, La questione più che altro (nottetempo), a Il pozzo vale più del tempo (Marsilio), cosa è cambiato, se è cambiato, nella tua concezione della geografia e della demografia direi dell’altra parte del tempo?

G: Se fossi una nostalgica dell’emo ti direi che ognuno è separato dall’altro da un abisso i cui margini ogni tanto si contraggono per caso o per intenzione, poi mi aggiusterei l’eyeliner colato e sposterei il ciuffo fucsia. L’emo però non mi è mai piaciuto quindi invece ti dico che pensando a mia nonna che è stata a servizio con la terza elementare, a mia madre che è stata a servizio con un diploma, a me che sono stata a servizio con una laurea e poi ho smesso di stare a servizio mi viene da supporre che il cambiamento non è in effetti una cosa da languidi (ancorché grandiosi) personaggi in vestaglia che maltrattano i sottoposti ma di lunga costruzione e stato sociale. Una consapevolezza anche banale se vuoi, acquisita a partire da quel primo libro pubblicato insieme – in cui si parlava di malattia e di morte così come di lavoro e assenza del medesimo – fino all’ultimo e alla narrazione della fine di un intero sistema produttivo così come del recupero di rituali di sepoltura e cura dei corpi. Riflettendoci ora, mi viene da dire che la mia visione della geografia e della demografia dell’altra parte del tempo non è cambiata affatto, perché è rimasta una visione appannata, nebbiosa e inconoscibile da cui a volte emerge una forma che mi prende a schiaffi e da quello schiaffo esce un libro.

Questa freschissima conversazione d’agosto, ti confesso, munite di palette e secchielli utili a scavare strane buche, secondo me la stiamo intrattenendo sotto il sole a picco della spiaggia libera degli Alberoni (Lido, Venezia) tra rami di alberi consumati dal battere ossessivo del vento e dal mare, brillanti come ossa. Vanno bene le strane buche, ma ti va se costruiamo anche un castello?

C: Allora forse chiuderei con Shirley Jackson. Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi, trad. M. Pareschi). Un po’ per il fatto di andare a servizio. Nessuno vuole andare a lavorare da Constance, Meredith e Jonas. E nemmeno loro vogliono che nessuno ci vada. Forse a un certo punto potrebbero cucinare un bambino, anche se non lo hanno mai fatto. Dunque il castello sì, ma col ponte levatoio. Forse anche solo per ricordarsi che vanno tenuti oliati gli ingranaggi attraverso i quali si possono raggiungere gli altri e andarsene. Abbassare e alzare il ponte levatoio. Ingranaggi gestuali e linguistici. Forse scrivere ha a che fare col costruire un castello col ponte levatoio e tenerlo ben funzionante. Un castello di sabbia, forse niente di perenne nelle intenzioni, o perenne indipendentemente dalle intenzioni, ma che può diventare più stabile, assestato, perenne, sai mai il sole che cuoce, la pioggia che cementifica, il vento che scolpisce e consuma, l’acqua di mare che cristallizza. E quindi, per riprendere la tua risposta di prima, come la mettiamo la scrittura con la lunga costruzione di uno stato sociale? (Ho cominciato io e dunque finisci tu?, a te tocca l’ultima parola a me l’ultimo silenzio?)

G: Come diresti tu questo è uno struggente interrogativo, perché io vorrei che alla costruzione di un sistema equo si potesse partecipare imboccando la via eremitica. Per esempio a volte mi piacerebbe proprio tanto che il narrare potesse esistere in assenza di teorizzazione. Non si tratta di pigrizia (o forse sì ma, anche in questo caso, posso sempre mentire). Non si tratta di pigrizia, è che spesso l’alta definizione mi sembra nemica della fantasia. Comunque alla fine dobbiamo (devo) concludere che lo spazio della costruzione sociale e politica è quello dell’esserci, lo spazio del narrare è quello del non esserci dopo esserci stati. Almeno, così mi sembra.

Nel non esserci possiamo coltivare la non asserzione, il gusto per le storture e il paradosso, possiamo simpatizzare con Merricat e andare a seppellire con lei piccoli oggetti in giardino, fidarci ciecamente e ingozzarci di lamponi sapendo che da lì (dallo spazio del non esserci) si torna indietro anche se siamo incoscienti, irresponsabili e folli.

Se l’esserci e il non esserci possono stare insieme in un sistema armonico, senza inquinarsi e danneggiarsi a vicenda ma anzi arricchendosi non credo di saperlo. Mi viene il dubbio che valga la pena continuare a provare e mi piace anche abbastanza chiudere con un dubbio, io risposte non ne ho quasi mai. 

Con un ultimo tocco di paletta G finisce di scrivere "Spiaggia libera tutti" sulla sabbia, C si alza e pensa che sì, Il pozzo vale più del tempo. E in fondo al pozzo, sulla riva del mare, si vede l’acqua.   

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