- Dopo un lungo periodo buio, Napoli è tornata ad essere una città cartolina accogliente per turisti e visitatori. Il disagio è stato sospinto ai margini della sua sterminata periferia. Saviano ha lasciato il posto ad Elena Ferrante.
- Nel suo ultimo libro, Appugrundrisse. Tornare a Napoli, il giornalista e scrittore Paolo Mossetti racconta la straniante nostalgia di fronte a una città cambiata, ma sempre uguale.
- È un libro su una città, ma anche di quella generazione che per prima ha dovuto fare i conti con la realtà di una vita più povera e precaria di quella dei proprio genitori.
È una fredda e soleggiata giornata di inverno e sotto il Vesuvio imbiancato le strade del centro di Napoli traboccano di passanti. Attraversare Largo Maradona, con i suoi murales e le sue bancarelle di souvenir a poco prezzo, richiede cinque minuti buoni. Poco più sotto, lungo via Toledo, la banda parrocchiale del quartiere Materdei riposa a un incrocio, gli stendardi intessuti d’oro con la Madonna e Gesù poggiati sulle spalle, finalmente silente dopo aver assediato i passanti per un buon chilometro. Per un visitatore è facile, in una giornata come questa, innamorarsi di Napoli.
Gli anni di Gomorra e delle guerre di Camorra, dell’immondizia per le strade e degli scippi ad ogni angolo sembrano distanti un secolo. Oggi Napoli sembra una città nuova in cui il folklore tradizionale si mischia con la modernità di Airbnb.
Cosa è accaduto in questo lungo decennio è il tema di Appugrundrisse. Tornare a Napoli, il libro che Paolo Mossetti ha da poco pubblicato con Minimum Fax. Il titolo è un gioco di parole tra appucundria, l’agrodolce nostalgia napoletana, e i Grundrisse, gli appunti di economia politica scritti da Karl Marx subito prima di imbarcarsi nella stesura del capitale.
Il ritorno, invece, è quello di una generazione di ultra trentenni, istruiti e cosmopoliti, costretti da un misto di ambizione e mancanza di opportunità ad andare al nord o all’estero e poi ritornati in una città mutata eppure mai così immobile.
Una città che sopravvive, come molti di loro, grazie a una ricchezza accumulata, ma dove le promesse di cambiamento hanno lasciato il posto all’apatia.
Il buio
All’orario dell’aperitivo piazza Bellini, nel pieno centro della movida napoletana, è piena di ragazzi e ragazze che fumano tabacco rollato seduti ai tavolini di caffè dall’aria intellettuale.
A Napoli l’aperitivo è una tradizione di importazione. Arrivata con il ritorno dei fuorisede e dei turisti come lo Spritz, che ha trasformato un anonimo bar senza neppure un tavolino nel celebre Peppe Spritz che attira ogni sera centinaia di ragazzi.
Quindici anni fa queste strade non erano così, mi racconta Mossetti mentre seduti a un tavolo una ragazza argentina ci serve due bicchieri di vino. «A quest’ora il centro era buio e deserto. Non c’erano locali aperti né turisti né studenti internazionali».
In quel periodo, tra 2004 e 2005, Mosetti era un giovane studente della Bocconi. Un fuorisede che da Milano, nei suoi sempre più frequenti ritorni in città, portava la voglia di fare per cambiare le cose.
Nel libro chiama quel periodo della storia di Napoli il “biennio buio”, simbolicamente e letteralmente. «Alla cronaca che consegnava ogni giorno il suo carico di morti ammazzati in periferia, il centro rispondeva spegnendo le sue luci, perché non c’erano i soldi e perché il Comune sperava di convincere in questo modo la gente a ritirarsi presto a casa».
Con un gruppo di amici, Mossetti fondò in quegli anni l’associazione “Il Richiamo”, la cui principale attività era il guerrila activism. «Eravamo attivisti del moralismo, incollavamo poesie e citazioni di don Peppe Diana e di altri personaggi uccisi dalla Camorra, sostituivamo la toponomastica ufficiale con i cognomi dei clan dominanti in quella zona».
Dopo l’uscita di Gomorra, vennero presi dal mito di Roberto Saviano: «La tua testona rasata, stampata su fogli a1 in bianco e nero, la incollammo decine di volte».
La mutazione
Il ritorno ci cui parla il titolo del libro è quindi anche quello dello stesso Mossetti. Appugrundrisse appartiene a quel genere letterario molto contemporaneo costituito da un misto di memoir e di saggio scientifico, dove al racconto personale si affiancano note scrupolose (una decina di pagine di bibliografia, in questo caso). Dopo gli anni de “Il Richiamo”, come tanti coetanei, Mossetti viaggia per il mondo. Vive a Londra e New York, mantenendosi come giornalista freelance e con piccoli lavoretti - la combinazione di impieghi precari nel terziario avanzato e gig economy che sembra la maledizione dei millennials e delle generazioni venute dopo.
Il momento del suo ritorno arriva nel 2016, in una città mutata. In pochi posti lo si può vedere come nei Quartieri Spagnoli, un budello di vicoli e case schiacciato tra il centro e la collina del Vomero.
Quindici anni fa i Quartieri erano una no go zone e quando gli amici lo venivano a trovare, Mossetti si sforzava di superare gli stereotipi e portarli a vedere quell’angolo di Napoli aberrante a due passi dal centro.
Oggi non c’è bisogno di alcuno sforzo per visitare la zona. I Quartieri sono una selva di Airbnb in cui i panni stesi attraverso le strade si contendono lo spazio aereo con le insegne “Spritz a un euro”. I turisti possono vedere da vicino una Napoli apparentemente ancora genuina ma inoffensiva. Saviano ha lasciato il posto ad Elena Ferrante.
Un aspetto particolarmente evidente di questa mutazione è quello culinario. Napoli, scrive Mossetti, è diventata «un’enorme impresa gastrica collettiva». Pizzerie gourmet e pasticcerie pseudo tradizionali hanno invaso il centro un tempo deserto. Negli anni del boom turistico iniziato una decina di anni fa «l’intera vita della città si è trasformata.
È l’arrivo dell’egemonia culturale del “food”, parola importata e venerata nel dizionario italiano-imprenditoriale». Una tendenza spinta fino al ridicolo parossismo incarnato alla sfilata di carnevale da bambini vestiti da rider di Just Eat, da dolci, da note catene di pizzerie.
Come l’arrivo di Airbnb e dello Spritz, è un cedimento alla globalizzazione, un’apertura a una peculiare forma di modernità che Napoli ha importato dalle altre grandi metropoli italiane.
Mentre passeggiamo per il Vomero, il quartiere altolocato che incombe sul centro storico passiamo davanti a Mr. Dick, catena di pasticcerie milanesi che vendono dolci a forma di organi sessuali.
La sua apertura ha causato un po’ di polemiche. Oggi, nella nutrita fila in attesa di fronte all’ingresso, c’è persino una famiglia con bambini.
La città ribelle
Poco distante dalla pasticceria sexy si trova Castel Sant’Elmo, il punto più alto della città. Dai suoi spalti Cinquecenteschi lo sguardo spazia su un orizzonte che se non fosse per il Vesuvio e la collina di Camaldoli sarebbe tutto occupato di case. Solo i confini amministrativi dividono la Napoli vera e propria dalla sua mostruosa periferia, quella che gli urbanisti chiamano la Grande Napoli e che si estende da Casal di Principe a Nord fino a Nocera a sud. Più di quattro milioni di persone in una delle aree più densamente abitate dell’Unione europea.
È in questa infinita terra di nessuno che è finito il disagio e la criminalità che la globalizzazione ha espulso dal centro turistico. «La città aberrante è stata sospinta in periferia», dice Mossetti mentre mangiamo una pizza in Piazza Mercato, nel quartiere Pendino che tutti chiamano Ferrovia, un tempo roccaforte della Napoli scugnizza.
Qui si giocano ancora tornei di pallone illegali tra squadre del rione e ragazze dai capelli perfettamente piastrati e senza casco viaggiano in tre in motorino. Ma il turista non rischia più nulla, o quasi, e la pizzeria è affollata come una catena gourmet un sabato sera nel centro di Milano.
Non è solo la devianza criminale ad essere stata ammansita e spinta via. Napoli è sempre stata un covo di ribelli, la città che durante le Quattro giornate si libera da sola dai nazisti e che insorge contro la Repubblica dopo il referendum del ‘46. È la città che per due volte elegge sindaco Luigi De Magistris, unica tra le metropoli italiane a farsi governare dalla sinistra populista e alternativa, alleata con le realtà dei centri sociali.
A due passi da casa di Mossetti, nel quartiere Materdei, nasce Potere al Popolo, la creatura politica più notevole uscita dal mondo della sinistra radicale italiana degli ultimi anni. Alla riunione in cui gli occupanti dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario iniziano a discutere la possibilità di partecipare alle elezioni politiche del 2018 c’è anche lui.
Nonostante il suo profilo indipendente critico nei confronti di certi eccessi di velleitarismo dei movimenti, Mossetti sarà un loro candidato alle comunali del 2021, quando dopo dieci anni di deludente esperienza con De Magistris il movimento decide di restargli fedele e sostenere la sua candidata - che si piazzerà terza a grande distanza dagli altri due.
Di quell’esperimento politico oggi non resta molto. In città è tornato a governare un centrosinistra ancora più grigio e senza idee di quello che lo aveva preceduto prima di De Magistris.
Gli anni del sindaco Masaniello saranno ricordati più per il boom del turismo più che per una visione alternativa di città che non è mai riuscito a produrre.
La resa
In pochi hanno nostalgia della Napoli prima delle pizzerie gourmet. «Negli anni Zero il centro storico era desertificato e con luci spente. La microcriminalità è stata domesticata. A un suo prezzo», dice Mossetti. L’arrivo dell’industria gastrica e di quella dell’accoglienza hanno creato un cuscinetto di welfare per i poveri del centro della città. Se la globalizzazione non ha trasformato Napoli e non l’ha sollevata dalla sua miseria, di certo ha attutito una caduta che avrebbe potuto essere peggiore. Con il richiamo ai Grundrisse del titolo, Mossetti vuole richiamare proprio il ruolo emancipatorio e inizialmente positivo che lo stesso Marx riconosce al capitalismo.
La nostalgia, la dolceamara saudade napoletana dell’appucundria, non è quella romantica per un passato lazzarone e idealizzato. Nostalgia di cosa, dunque? Di quello che per una generazione avrebbe potuto essere e non è stato, spiega Mossetti.
È la grande pietra che pesa al collo dei nati negli anni Ottanta, i primi ad avere la certezza sociologica di andare incontro a una vita più povera e più precaria dei propri genitori.
Appugrundrisse è un libro che per metà parla di una città e per metà di una generazione. Anzi, come Mossetti chiarisce, di una parte di questa generazione. I figli della media borghesia istruita che speravano che con lo studio e la specializzazione avrebbero potuto soddisfare le loro ambizioni personali, che la società avrebbe fornito loro gli spazi e gli strumenti democratici per influire sulla loro città.
Invece, come la Napoli lazzarona e ribelle si è fatta addomesticare dal turismo o si è lasciata sospingere nelle periferie ultra marginali, così molti ritornanti hanno dovuto rinunciare allo status sociale ambito e accontentarsi di arrotondare i loro magri e precari stipendi affittando qualche stanza della casa lasciata dai genitori, o di lanciarsi all'arrembaggio nel capitalismo di piattaforma, mentre i loro esperimenti politici si sono inariditi, senza lasciare un’eredità.
«Chi ritorna in punta di piedi, da adulto, nella cameretta che aveva da ragazzo e la ritrova intatta, con i suoi libri e i suoi poster lì dove li aveva lasciati appartiene alla classe media», scrive Mossetti nell’incipit del libro.
«La classe media che lascia Napoli per trasferirsi al Nord non ha solo una cameretta intatta, ha un’intera città che sembra aspettarla immutata».
Con il suo Vesuvio imbiancato, con i suoi i suoi panni stesi al vento che, nella pallida luce invernale, sembrano tante bandiere bianche.
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