Da metà ottobre sono stati presentati una trentina di eventi per la Biennale Musica, la sezione dedicata alla musica contemporanea della Biennale di Venezia. Per il secondo anno è diretta dalla compositrice romana Lucia Ronchetti
In una delle grandi sale all'interno del complesso dell'Arsenale, si apre una stanza buia. Al centro, un acquario illuminato, in cui le alghe proliferano, crescono, si decompongono. Permeano l’ambiente, lo modificano, esauriscono gli spazi. E stordiscono con il suono che cresce: alcuni sensori rilevano i cambiamenti di temperatura e di ossigeno nell’acquario, parametri influenzati dalla presenza del pubblico che cammina e sosta intorno all'installazione creata da Alberto Anhaus, generando onde sonore diffuse dagli altoparlanti.
Rovesciando la prospettiva antropocentrica, è questa specie che viene definita invasiva, a fuoriuscire dalla laguna e a colonizzare il nostro mondo, a costringerci ad ascoltare, che lo vogliamo o no: l'innalzamento dei mari, rappresentato nei grafici posti all'entrata della sala, è ormai inesorabile e Venezia è destinata ad essere sommersa.
La creazione di Anhaus è una della trentina di eventi presentati nella seconda metà di ottobre per la Biennale Musica, la sezione dedicata alla musica contemporanea della Biennale di Venezia, per il terzo anno diretta dalla compositrice romana Lucia Ronchetti.
Con prime esecuzioni assolute, installazioni sonore, performance di elettronica sperimentale e un focus sul clubbing. Sono stati inoltre selezionati dieci artisti sotto i 30 anni, tra gli oltre 300 candidati da tutto il mondo, per la Biennale College Musica, progetto che supporta la realizzazione delle opere dei giovani artisti, come il lavoro di Anhaus.
Una rinnovata ontologia musicale
Come spiega il testo introduttivo di quest’edizione, intitolata Micro-Music e dedicata ai suoni digitali e a ricerche e tecnologie sperimentali, «l’ascolto del suono digitale, privo della visualizzazione delle sorgenti sonore e del contesto gestuale dell’esecuzione e della produzione, invita alla pura percezione acustica per una rinnovata ontologia musicale». La musica, dunque, nell’epoca dello streaming, del mediocre singolo da talent e dei brani ridotti a cangiante colonna sonora per video su TikTok, della durata di pochi secondi, torna al centro, pura esperienza di ascolto, di presenza.
Come accade nel concerto introduttivo di Morton Subotnick, uno dei precursori della musica elettronica. L’opera performativa del compositore 88enne parte dal suo respiro, amplificato dal microfono che, rielaborato in forma elettronica, dà forma a nuovi ritmi, suoni e frequenze, per poi ritornare, in modo circolare, al suo respiro.
In apertura al lavoro di Subotnick, la reinterpretazione di GLIA di Maryanne Amacher, compositrice statunitense che aveva approfondito le sue ricerche sulla relazione tra il suono e la percezione umana, scomparsa nel 2009.
Accedendo alla Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, la sede della Biennale affacciata sul Canal Grande, ci vengono consegnati dei tappi per le orecchie, nel caso i suoni fossero troppo forti. Una decina di elementi di percussioni sono sparsi per la grande stanza, piatti, timpani, grancasse, rullanti.
L’artista australiano Guy Ben-Ary presenta commosso la performance cui stiamo per assistere, Music for surrogate performer, un progetto nato insieme al compositore sperimentale Alvin Lucier, riprendendo una sua opera del 1965, il cui il segnale elettrico delle onde cerebrali di un performer venivano amplificate e trasmesse alle percussioni nella stanza.
Lucier, prima di morire nel 2021, aveva donato un campione del suo sangue al gruppo di ricerca, da cui sono state sviluppate delle reti neurali viventi, collegate alle percussioni e a un sintetizzatore.
Eccolo, il performer surrogato: le cellule di un compositore che non c’è più, che creano musica, in dialogo improvvisativo con il musicista Darren Moore, che gestisce il suono del sintetizzatore e suona la batteria e le percussioni davanti a lui. Il pubblico è in piedi, libero di esplorare lo spazio e ascoltare le diverse fonti sonore disseminate per la stanza.
Non c’è nessun software, nessuna intelligenza artificiale ad agire senza che la si possa vedere: si tratta solo di scariche elettriche e dei suoni generati attraverso il sistema di amplificazione di questi segnali. È un’opera che parla della nostra epoca, disintermediata, in cui il surrogato sono i social media, la nostra mutevole identità digitale. Ma la matrice imprescindibile resta l'umano.
In questa stessa sala Brian Eno ha ritirato il Leone d'Oro alla carriera, dopo il doppio applauditissimo concerto al teatro La Fenice, insieme alla giovane orchestra Baltic Sea Philarmonic, dove più che mai colpiva la varietà del pubblico, tra appassionati di elettronica e metallari, famiglie con curiosi figli adolescenti, il parterre degli habitués, in vestito da sera e collana di perle.
La scelta di premiare il musicista britannico, l’inventore della musica ambient, produttore e sperimentatore al lavoro con Roxy Music, David Bowie, Talking Heads, con Robert Fripp dei King Crimson, innovatore capace di anticipare tendenze nella musica contemporanea, new wave, elettronica, segnala la volontà di dare riconoscimento a chi nel suo fecondo percorso ha sempre cercato di aprire nuovi orizzonti, di interpretare la musica un campo di possibilità infinite, in un «paradigma compositivo ispirato alla biologia o all’architettura, capace di auto-evolvere e generare costantemente nuovi paesaggi sonori», come ha motivato la direttrice Ronchetti, in cui ogni elemento che ci circonda può entrare a far parte di una composizione.
Nel discorso di premiazione, Brian Eno ha sottolineato come «nessuna idea viene da una persona sola, ogni idea ha radici molto complicate, che vanno indietro di centinaia d'anni, risalendo l'intera storia della cultura». Il merito di un artista come lui, che rifiuta le etichette di chi lo definisce genio o maestro, è di essere un medium dalle antenne particolarmente ricettive, capace di reinterpretare in musica quello che vede accadere attorno a lui.
Mutazioni
La natura stessa di cosa sia musica è infatti mutevole e assume una varietà di forme di cui il programma della Biennale Musica ci ha dato un assaggio.
L'artista berlinese Robert Henke ad esempio ha creato un’opera interagendo con quattro personal computer Commodore dei primi anni '80, facendo emergere da processori a 8 bit un intero inaspettato mondo di musica elettronica e grafica. La musicista e organista statunitense Kali Malone, una delle più importanti esponenti di quella nuova branca della musica elettroacustica che esplora la dimensione spirituale, insieme alla chitarra di Stephen O' Malley (fondatore dei Sunn O), ha illuminato di luce oscura la Basilica di San Pietro a Castello. Il compositore tedesco Marcus Schmickler ha ricreato invece, nella chiesa di Santa Maria dei Carmini, una mappa acustica dei campanili di Venezia.
Mentre negli interni riadattati del Teatro alle Tese dell'Arsenale, ha trovato spazio la sezione dedicata a dj e clubbing, con il live del duo di Manchester degli Autechre, instancabili esploratori che si muovono tra techno, ambient e musica sperimentale. E, ospitato nella sala concerti del conservatorio veneziano, l'inatteso concerto per organo del 70enne John Zorn, esponente del jazz più libero e d'avanguardia, che è tornato, interpretandolo a suo modo, al suo primo strumento.
Spesso allontanandosi da formule canoniche e da approdi conosciuti, molti di questi lavori richiedono attenzione, un ascolto partecipato e, appunto, presenza. Uno sforzo che hanno voluto fare, anche solo per curiosità o attirate da qualcuno tra i nomi più in vista, più di 19mila persone, il doppio del pubblico rispetto all'edizione dell'anno scorso.
È un segnale, questo, che in molti sono pronti a scoprire e a farsi sorprendere da forme di espressione nuove e inusuali. La musica sperimentale è viva e si rivela capace, più di un trito ritornello su TikTok, di parlare al nostro tempo.
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