A partire dalla fine degli anni Settanta, Pechino ha scelto di diventare una superpotenza marittima. I suoi pescherecci all’inizio battevano le aree vicine alle coste cinesi, oggi arrivano alle coste africane e in Sud America. Le condizioni a bordo delle sue navi spesso sono durissime. E la pesca intensiva mette a rischio la biodiversità. Ma è una responsabilità diffusa: il 70 per cento del pescato viene esportato, arrivando fino alle nostre tavole
Tempo di soggiorni al mare, e dunque tempo di ristoranti lungo la costa a specialità pesce – che promettono il pescato del giorno, con quella promessa di freschezza e tipicità locale che tanto continua a sedurre i nostri palati. A volte, però, c’è anche il pescato di qualche tempo prima, con quel piccolo asterisco che avverte che “certi prodotti potrebbero essere surgelati”, che forse una pulce nell’orecchio potrebbe metterla.
Infatti, per quanto l’idea che mangiare pesce “fa bene” continui ad essere diffusa – sorvolando sulla presenza di metalli pesanti e microplastiche nelle loro carni – il mare, in barba al vecchio proverbio, già da un po’ non è più pieno di pesci. Il fenomeno non riguarda solo il Mediterraneo, sempre più caldo ed inquinato, ma l’interezza dei mari del globo: secondo uno studio delle Nazioni unite già del 2018, quasi il 90 per cento degli stock ittici sono «interamente sfruttati, sovrasfruttati o esauriti». Malgrado diverse iniziative globali, da allora le cose non sono migliorate – e aumentano gli asterischi che ci avvertono che il prodotto “potrebbe” essere surgelato.
Il problema non è recente, dato che il quantitativo di pescato globale è in declino costante già dagli anni Ottanta. Un periodo importante, che coincide anche con il rapido aumentare della flotta cinese di pescherecci per la pesca in acque profonde, dopo che, alla fine dei Settanta (e quindi con l’inizio delle riforme economiche sotto Deng Xiaoping), il governo centrale cinese aveva deciso di incentivare la pesca, per soddisfare una fame crescente di pesce nel mercato interno, e provvedere a una dieta maggiormente variata per la popolazione.
La strategia di Pechino
Erano gli anni dell’apertura economica al business privato, dopo il periodo maoista che aveva imposto la collettivizzazione, portando dunque al ritorno esplosivo dei ristoranti privati, con, anche in Cina, locali a specialità pesce. Da allora, attraverso diverse tappe in cui la strategia governativa si è modificata – passando dalla pesca nelle acque cinesi a quella sempre più estesa nel globo, ma anche aumentando esponenzialmente il numero di allevamenti di pesci – le navi da pesca cinesi si recano praticamente ovunque, e in massa.
La Cina detiene infatti la flotta più grande al mondo, che conta oggi 564mila pescherecci (secondo fonti Fao del 2022). Possono sembrare tanti, ma va notato che dal 2013 ad oggi la Cina ne ha ridotto il numero del 47 per cento (prima di questa data, erano più di un milione), nel tentativo di ridimensionare il suo impatto mondiale, e di pari passo all’aumentare degli allevamenti di piscicoltura. A rendere meno positivo il calo nel numero delle navi, però, è il maggior tempo che queste trascorrono oggi in mare.
Fino alla fine degli anni Settanta, dunque, i pescherecci cinesi pescavano nelle acque limitrofe alla Cina – in modo così intenso, che in poco più di una decina di anni questo mare era già stato svuotato (un fenomeno aggravato anche dalla rapida crescita dell’industria cinese, che ha adottato misure di protezione ecologica con ritardo). In Asia, li si possono vedere nelle acque contese fra la Cina e i paesi vicini, ed in particolare nelle acque che la Cina reputa essere sue e che sono rappresentate dalla “lingua a nove linee” che si vede sulle mappe cinesi dal 1947, ma solo su quelle.
La sovranità marittima estrema rivendicata dalla Cina non è riconosciuta da nessuno, ed è anzi stata dichiarata «priva di fondamento legale» dalla Corte internazionale all’Aia nel 2016, in risposta ad una denuncia delle Filippine. Si tratta di una linea tracciata, per l’appunto, con nove trattini, che indica tutte le acque che la Cina considera fare parte del suo territorio, e che va dall’isola di Hainan fino a Taiwan, ed estendendosi molto a sud: vicinissimo al Vietnam, al Borneo, e alle Filippine (se date un’occhiata alla mappa con i nove trattini tracciati, la pretesa cinese appare in tutta la sua audacia).
Nelle zone contese, in particolare, alcuni dei pescherecci cinesi hanno un ruolo doppio. Dato che la linea fra pesca e pretesa territoriale non è netta, negli ultimi tempi gli incidenti con navi di altri paesi sono stati sempre più numerosi, e intenzionali – in particolare, di nuovo, con le Filippine, paese con cui le tensioni sono in crescita costante proprio sulla delimitazione delle acque territoriali. Così, le navi da pesca cinesi possono avere anche una funzione di sorveglianza e di raccolta dati sulle attività ittiche e militari delle altre nazioni che solcano le stesse acque.
Guardando oltre, i pescherecci cinesi si trovano anche nelle acque della Corea del Nord, alle quali hanno accesso dopo aver acquistato da Pyongyang permessi che, viste le sanzioni Onu contro questo paese, non sarebbero proprio legali. La Cina ha sempre negato a livello ufficiale che i suoi pescherecci siano coinvolti in attività contrarie alla legge, incluse quelle di acquisti non ortodossi di permessi di pesca, ma le dichiarazioni ufficiali si scontrano sia con i dati dei paesi che hanno cercato di portare le loro lamentele alle Corti internazionali, sia con le inchieste giornalistiche che quelle condotte dalle Organizzazioni non governative.
I diritti
La pesca eccessiva in queste acque può avere conseguenze macabre, alle quali ci si è stranamente abituati: ogni anno infatti, in primavera, le correnti portano in Giappone dei pescherecci nordcoreani chiamati “navi fantasma”, un termine quasi poetico per desensibilizzarsi e descrivere navi che arrivano sulle coste nipponiche trasportando solo cadaveri. Vittime dell’essersi spinti sempre più in là per trovare del pesce in acque ormai vuote, ritrovandosi nel mezzo di correnti traditrici o improvvisamente impigliate nei ghiacci, nelle quali di solito nessun pescatore andava. Del resto, la pesca continua ad essere tutt’oggi uno dei mestieri più pericolosi, con più di centomila morti sul lavoro all’anno a livello mondiale.
Lontano dall’Asia, per esempio al largo delle coste dell’Africa occidentale, ci sono diverse centinaia di navi da pesca cinesi, che molti pescatori del luogo indicano come diretti responsabili della rapida diminuzione delle quantità di pesce a loro accessibili, e del conseguente impoverimento di chi dipendeva dalla pesca per la sua sopravvivenza. Si stima che la scomparsa del pesce abbia fatto perdere alla regione più di nove miliardi di dollari l’anno, una cifra davvero considerevole per i pescatori della zona.
Un dettagliato articolo del New Yorker dell’ottobre scorso, dal titolo “I crimini dietro al pesce che mangiate”, mostra con l’evidenza più schiacciante come i pescherecci cinesi di seppie possano essere trovati nella acque vicino alle Galapagos, al Cile e all’Argentina, e come, in alcuni casi, questi spengano i radar per periodi di varia lunghezza per poter pescare incognito anche dove non si potrebbe. Gli abusi documentati non pesano solo sull’ecosistema e sulle scorte ittiche, ma anche sulle persone.
Sempre nell’articolo del New Yorker si vede come i marinai e gli operai a bordo, assunti in modo spesso subdolo o menzognero da agenzie di collocamento in Cina, in Indonesia o altri paesi del sud est asiatico, si ritrovano una volta a bordo, in condizioni di libertà limitata, incapaci di mettere piede a terra per più di un anno consecutivo, e sottoposti a turni lunghissimi e davvero massacranti.
Le condizioni a bordo sono talmente al di sotto delle norme che le malattie più prevenibili sono invece diffuse, in parte per mancanza di personale medico a bordo, e in parte per una dieta insufficiente che causa beriberi e scorbuto, neanche fossimo ai tempi in cui non si sapeva dell’esistenza e necessità della vitamina C. Le paghe si rivelano essere da fame, e spesso trattenute da capitani scaltri e con tendenze sociopatiche, che non esitano a ricorrere alla violenza quando i lavoratori si lamentano, o a diminuire loro la paga per la minima infrazione a un regolamento inumano.
Una responsabilità diffusa
Questa potrebbe sembrare una di quelle storie in cui il colpevole è uno solo, chiaro e individuabile: la Cina pesca troppo, pesca in troppi posti, in acque troppo profonde e in maniera troppo aggressiva, utilizzando navi gestite come campi di lavoro. Il che è irrefutabile, tanto che il governo cinese stesso, come abbiamo visto, sta facendo sforzi considerevoli per diminuire la sua flotta. In alcuni casi, anche per migliorare le condizioni a bordo quando i lavoratori sono cinesi – specie in seguito all’ammutinamento a bordo della Lurongyu 2682, partita nel 2011 per il Sud America per pescare calamari, e finita con una rivolta contro il capitano, per l’assenza di paghe e i due anni passati senza consentire soste a terra. La rivolta portò all’uccisione a bordo di 22 persone, su 33 che ce n’erano. Delle restanti 11, cinque vennero poi condannate a morte nel 2017.
Ma come si può vedere già da ora, il pesce arriva sulle nostre tavole tramite percorsi davvero tortuosi, e la responsabilità è molto più diffusa: il 70 per cento di quello che la Cina pesca viene infatti esportato, soprattutto sotto forma di surgelati, o prodotti già elaborati. I calamari e le seppie di cui si parla nell’articolo del New Yorker, per guardare solo a questo prodotto ittico, costituiscono l’80 per cento del totale pescato, ed arriva dunque in tutto il mondo dopo essere stato pescato e processato da pescherecci cinesi.
Guardando ai dati dell’import e dell’export mondiale del pesce, infatti, ci si rende conto che tracciare la provenienza dei filetti di pesce, e del pesce surgelato non a filetti, richiede molta attenzione e pazienza e il gusto per l’assurdo per il modo contorto in cui ci procuriamo il cibo di cui ci nutriamo.
Partiamo da quelli iniziali dell’export: la Cina esporta il 70 per cento di quello che pesca – spesso sotto forma di surgelati, per l’appunto, già processati e surgelati a bordo dei pescherecci, in forma di farina di pesce e di filetto di pesce, prima di tutto, poi di pesci interi e frutti di mare, che possono provenire sia dall’itticoltura in Cina, che da pesce pescato in mare.
Però la Cina è diventata anche uno dei primi importatori di pesce: se guardiamo a questa statistica in modo secco, significherebbe che i consumatori cinesi mangiano oggi circa 40 chili di pesce all’anno a persona. Tanto per cambiare, le cose sono più complesse, dato che la maggior parte del pesce importato, ovvero il 75 per cento del totale (secondo fonti FAO) viene trattato, e riesportato.
In particolare il merluzzo, il merluzzo d’Alaska, e il tonno importati in Cina sono quasi interamente ri-esportati, dopo essere processati internamente. Il pesce-gatto, i gamberi e gamberetti, e le carpe sono invece prodotti e consumati nel paese. Interessante anche vedere da dove viene il pesce importato ed esportato: nel 2023, il primo paese esportatore di pesce verso la Cina era l’Ecuador (per 3,5 miliardi di dollari Usa). Al secondo posto, però c’è la Russia, che con la guerra in Ucraina in corso, ha aumentato del 102 per cento quantitativo di pesce che esporta verso la Cina, per un totale di oltre un milione e 100mila tonnellate di pesce per un valore di circa due miliardi di dollari, secondo dati del Fisker Forum norvegese.
Il pesce “italiano”
L’Italia, per esempio, importa dalla Cina circa il 10 per cento del pesce – ma questo dato esclude, per esempio, la farina di pesce, che proviene da prodotti ittici che, nel girare dentro e fuori navi, paesi ed aziende, perde abbastanza in fretta una tracciabilità affidabile e consistente. Quelle seppie e calamari che mangiamo come fritto misto estivo, ben spruzzato di limone, è quasi sicuramente stato pescato dai pescherecci cinesi in giro per il mondo documentati dall’articolo del New Yorker.
Anche i polpetti che troviamo nello stesso piatto sono arrivati a noi dalla Cina, surgelati, Non importiamo solo dalla Cina, beninteso, dato che il primo paese da cui ci approvvigioniamo è la Spagna, che provvede con il 22 per cento dell’importazione italiana, con buona pace del Mediterraneo sempre più privo di pesci. Il tonno in scatola importato in Italia è in primo luogo proveniente dalla Spagna, ma quello che troviamo sui banchi del supermercato, o nelle pescherie, prima di arrivare lì ha fatto un bel viaggio, sotto forma di surgelato, dalla Russia alla Cina, transitando poi per altri paesi europei, dentro o fuori l’Unione europea: i più attivi in questo settore sono infatti Germania, Regno Unito e Norvegia.
Il vero tonno fresco, non ulteriormente rinfrescato dal congelatore, è facilmente riconoscibile: costa una fortuna, e può essere meno rosato di quello scongelato e venduto sui banchi, dato che quello surgelato ha spesso un’aggiunta di sano incarnato roseo sotto forma di nitriti e nitrati, il fard più comune per i tonni che devono presentarsi attraenti all’occhio dei consumatori.
Cosa consumare?
Ci sono soluzioni a una situazione così complessa, con così tanti attori e profonde zone d’ombra, importazioni ed esportazioni imbizzarrite che rendono una povera seppia pescata uno degli esseri al mondo ad aver accumulato più chilometri e ore di congelamento? C’è chi propone un più ampio utilizzo della tracciabilità tramite il blockchain, che se non altro garantirebbe una maggiore difficoltà nell’occultare almeno parte del tragitto che hanno fatto i prodotti, non solo ittici, che ci mettiamo in bocca.
O ancora, di documentarsi meglio su quali siano le specie ittiche locali non sovrasfruttate, ed effettivamente ancora disponibili in maggiori quantitativi, ed ordinarle al ristorante o in pescheria – anche se a volte sono meno “belle” di quelle importate (la sogliola mediterranea, per esempio, è più piccola e spinosetta di quella dell’Atlantico, però se la si trova, ha fatto molta meno strada).
L’altra possibilità sarebbe quella di limitare maggiormente il consumo di pesce, anche sotto forma di filetti surgelati e di calamari, seppie, e vari altri tipi, nonché dei prodotti che ne contengono le farine (leggere le etichette dei prodotti acquistati diventa dunque d’obbligo).
Ma questa di limitare il consumo di pesce, soprattutto mentre siamo al mare, è di solito l’opzione che meno persone scelgono, pur non sempre consapevoli di star mangiando prodotti che di locale hanno poco – e di specialità, forse, ancor meno.
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