Dagli anni Settanta le balene sono diventate un simbolo della lotta ambientalista: anche in quei paesi che più hanno resistito alla messa al bando della caccia (come la Norvegia o appunto Giappone), è difficile sostenere che la carne di balena sia un prodotto “popolare” e gli animalisti sono stati aiutati dal fatto che ormai erano superflui dal punto di vista industriale e inesistenti nella dieta della maggior parte della popolazione
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Una megattera salta fuori a bocca aperta, facendo vedere chiaramente la sua lunga lingua rosa, mentre la parte inferiore della sua testa si allarga come un enorme palloncino per ingollare litri d’acqua, pesce e microrganismi. È una scena che oggi migliaia di turisti vedono ogni anno andando a fare whale watching. Difficile immaginare che non generi enorme meraviglia.
Basta questa meraviglia a spiegare perché nella maggior parte del pianeta la carne di balena è diventata un tabù? No, perché come molte delle scelte che facciamo su cosa mangiare e cosa non mangiare, la faccenda è complessa e piena di contraddizioni.
Nella maggior parte del pianeta, mangiare cetacei è illegale. Con l’avvento della caccia alle balene a livello industriale nell’Ottocento, a metà del XX secolo la popolazione di diverse specie era stata portata sull’orlo dell’estinzione.
Da quando la International Whaling Commission l’ha vietata nel 1986, solo Norvegia, Islanda e Giappone hanno continuato la caccia su larga scala. Mentre le comunità aborigene in Alaska, Canada, Groenlandia e Russia catturano piccole quantità di cetacei, così come la nazione caraibica di Saint Vincent Grenadine.
Quello che cercavano le baleniere ottocentesche era soprattutto il grasso di megattere, balenottere e capodogli, da trasformare in olio per lampade e in altri prodotti. Nella maggior parte dei casi, la carne era più che altro un sottoprodotto. I pochi che oggi continuano a cacciare cetacei però lo fanno unicamente con lo scopo di mangiarli.
Su TikTok può capitare di vedere content creator, con account dedicati a raccontare le tradizioni delle popolazioni Inuit canadesi, che mostrano il muktuk (la pelle e il grasso) di beluga congelato: sono animali uccisi in numero contenuto, con il placet della International Whaling Commission.
In Norvegia e in Islanda si cacciano balenottere minori, per il consumo interno. Ma anche per esportarle in Giappone, paese dove si cacciano anche balenottere di Bryde e balenottere boreali.
Razioni o gusto esotico
Se la carne di balena non è diventata popolare negli Stati Uniti per esempio, non è per mancanza di tentativi. Lo spiega bene la storica Nancy Shoemaker, nel suo studio Whale Meat in American History pubblicato nel 2005 dalla rivista scientifica Environmental History.
Durante la Prima guerra mondiale, il governo federale, spaventato dal pericolo di carenza di cibo, aveva iniziato a sponsorizzarla, con pamphlet che proponevano alle casalinghe americane ricette di crocchette di balena o di macinato di balena con uova strapazzate. All’American Museum of Natural History, a New York, nel 1918 si è tenuto un banchetto in cui «esploratori artici, rappresentanti delle organizzazioni alimentari governative e altri luminari si sono radunati per mangiare varie pietanze a base di balena preparate da uno chef di Demonico’s». Tra cui una deep sea pie con carne di megattera, come racconta la scrittrice australiana Rebecca Giggs in Le regine dell’abisso.
Decenni dopo, spiega sempre Shoemaker, l’industria baleniera norvegese ha tentato di popolarizzare i filetti di balena congelati nelle città della East Coast degli Stati Uniti, presentati come una prelibatezza esotica. Ma anche in questo caso, senza ottenere grande successo commerciale.
Nel Novecento, comunque, lo slancio governativo per la carne di balena non è un fenomeno limitato agli Stati Uniti: anche nel Regno Unito, durante la Seconda guerra mondiale, il ministero per il Cibo ha cercato di introdurre bistecche di balena e più avanti la carne di balena in scatola. Sempre con scarso successo.
Poco consumata
Diversa è la questione del Giappone: anche qui la storia della carne di balena si intreccia a quella della Seconda guerra mondiale. Ma in questo caso, la carenza di altre proteine dovuta al conflitto ha effettivamente reso molto più diffuso il consumo di carne di balena. E ha avuto l’effetto di legarlo in maniera molto stretta alla costruzione dell’identità nazionale giapponese.
In ogni caso, anche in quei paesi che più hanno resistito alla messa al bando della caccia (come la Norvegia o appunto Giappone), è difficile sostenere che la carne di balena sia un prodotto “popolare”. Uno studio del 2012 dell’International Fund for Animal Welfare mostrava che solo l’11 per cento dei giapponesi aveva acquistato carne di balena nell’ultimo anno. In generale, scrive sempre Giggs, anche in Norvegia e in Islanda si tratta di quantità trascurabili: in Islanda solo il 3,2 per cento della popolazione mangia balena almeno sei volte all’anno. Solo l’1,7 per cento una volta al mese. Anche in Norvegia, dove l’usanza è più diffusa, è solo il 4 per cento della popolazione a mangiare carne di balena. E i più giovani sono i più convinti della necessità di abbandonare la tradizione della caccia per scopi commerciali.
Una vittoria ecologica?
La messa al bando quasi universale della caccia alle balene a prima vista sembra una vittoria completa del movimento ambientalista. Che a partire dagli anni Settanta le ha rese il volto della battaglia per la conservazione delle specie: cruciale in questo è stata la scoperta, fatta dal biologo marino Roger Payne, dei canti delle megattere, registrati e incisi in un disco che ha avuto un enorme successo commerciale. Di certo, nel fare pressioni per salvare le specie di cetacei in via d’estinzione, gli animalisti sono stati aiutati dal fatto che ormai erano superflui dal punto di vista industriale e inesistenti nella dieta della maggior parte della popolazione globale,
Ma comunque le balene sono state un simbolo potente della possibilità di riparare ai danni che l’uomo stava facendo agli animali e all’ambiente: il numero di esemplari di alcune delle specie di grandi balene che sono state più colpite dalla caccia, come le megattere, è aumentato molto.
La realtà è però che l’attività umana non ha smesso di minacciare i cetacei. E ne vediamo le conseguenze anche sulle persone che li mangiano, magari da secoli. Come le donne Inuit della Groenlandia, a cui già nel 2004 era stato consigliato di smettere di consumare beluga durante la gravidanza e l’allattamento: il livello di sostanze tossiche che assorbivano dai mammiferi marini era pericolo per loro e per i loro figli.
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