Nella Prima Repubblica, si parlava di “arco costituzionale”. E tale formula comprendeva quei partiti che avevano elaborato e approvato appunto la Costituzione. Era un termine suggestivo: “arco”, quindi una struttura architettonica portante, di ingegnosa eleganza; e “costituzionale”, dunque basato sui valori unificanti della Repubblica nata dall’antifascismo.

Ma era anche un termine sottilmente perfido, perché di fatto accomunava tutti i partiti in cui si riconoscevano gli elettori, tranne uno: il Movimento sociale italiano. Che svariati milioni di italiani, per decenni, hanno invece continuato imperterriti a votare: perché orgogliosi della stagione fascista, o perché irriducibili anticomunisti (e anti sinistra in tutte le sue declinazioni possibili), oppure per un malinteso senso di patria, o per chissà quali altre ragioni.

Sta di fatto che quei loro voti finivano regolarmente per non contare nulla. Almeno sulla carta. Perché invece il variare del peso della destra in Parlamento qualche effetto lo provocava eccome, nelle scelte delle altre forze politiche. A partire naturalmente dalla Democrazia cristiana, che in alcune occasioni (il sostegno parlamentare al governo Tambroni nel 1960, l’elezione del presidente della Repubblica Leone nel 1971) se ne giovò concretamente.

I due protagonisti

A interpretare le “anime” del Movimento sociale furono principalmente due uomini: Giorgio Almirante, che ne fu il primo segretario tra il 1946 e il 1950 e che ne incarnò la politica dal 1969 fino al 1987, e Pino Rauti, che curiosamente ne fu l’ultimo leader, brevemente nel 1990 dopo la morte di Almirante, poi spodestato dal ritorno di Gianfranco Fini (l’erede che lo stesso Almirante aveva designato), che si incaricherà di mutare in Alleanza nazionale lo storico partito della fiamma.
Che nel simbolo originava da quella che è sempre sembrata una bara: ovviamente quella del duce.

Due figure diversissime, spesso tra loro in contrasto (più tattico che strategico), ma accomunate dalla fiera rivendicazione dell’eredità più nera del ventennio, ad esempio durante la stagione “moderata” del partito incarnata da De Marsanich e Michelini, di cui furono infatti entrambi duri oppositori.

«Fascisti in democrazia» fu del resto il celebre slogan cavalcato da Almirante, la cui biografia peraltro ha sempre parlato da sola, e altrettanto indubitabile è stato il fascismo di Rauti nell’Italia repubblicana, fin dall’adesione nei primi anni Cinquanta ai ricostituiti Fasci di azione rivoluzionaria, organizzazione eversiva protagonista di più attentati.

La continuità 

Almirante e Rauti sono al centro dell’ultimo lavoro dello storico Davide Conti, recentemente pubblicato da Einaudi. Ma fin dal titolo le carte sono scoperte: non lo slogan caro all’ex fucilatore di partigiani, bensì Fascisti contro la democrazia, l’uno e l’altro.

Ed è significativo che le parole utilizzate per il titolo siano esattamente quelle con cui l’autore chiude il proprio saggio, quasi a dire: ecco, ora che avete letto tutto, ora che avete conosciuto nei dettagli le parabole dei due protagonisti, sia a livello biografico sia per quanto riguarda la portata del loro agire di politico, sarete d’accordo con questo bilancio a ragion veduta.

Un bilancio che si fa forte di un formidabile lavoro di ricerca, certificato da un apparato di note che si estende per una buona cinquantina di pagine, oltre che da un vertiginoso indice dei nomi. D’altra parte si tratta di un lavoro che copre capillarmente un intero trentennio di vita pubblica dei due “dioscuri” della destra italiana: Almirante e Rauti alle radici della destra italiana. 1946-1976, recita infatti il sottotitolo, benché il libro nelle pagine finali si spinga anche qualche anno più in là.

Il lettore è avvertito fin dalla copertina: «Almirante e Rauti furono animatori di una comunità fortemente ostile alla radice fondativa della democrazia. E sono il punto d’origine di una certa destra contemporanea».

Ed esattamente qui sta il punto. Cioè la continuità tra l’esperienza politica della destra italiana sotto le insegne del Movimento sociale e quella, attuale, che attraverso Fratelli d’Italia ha coronato un risultato del tutto impensabile non solo ai tempi di Almirante, ma anche appena due-tre anni fa: l’essere diventato il partito più votato e l’aver conquistato la presidenza del Consiglio.

Ma tutto questo senza che mai sia stata definitivamente e irrevocabilmente ripudiata l’eredità (culturale e politica) del ventennio. O comunque, se pure a parole in qualche modo è stato fatto (il fascismo «male assoluto» di Fini, la sua visita in Israele e l’omaggio a Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto: ma si era dovuto attendere addirittura il 2003), oggi non sembra affatto che tale posizione sia stata interiorizzata e metabolizzata a fondo dalla totalità di militanti ed elettori.

Un assalto rivelatore

Un'immagine d'archivio dei disordini all'Università di Roma nell'aprile del 1968 (foto ANSA)

Su che cosa sia stata la destra incarnata da Almirante e Rauti, il libro di Conti è un’autentica miniera: impossibile ripercorrere qui nel dettaglio la messe di elementi che illustrano contiguità e complicità con chi programmaticamente voleva disfarsi della democrazia nata dalla Resistenza.

C’è però un episodio rivelatore su cui l’autore giustamente si sofferma: l’assalto squadrista del 16 marzo 1968 all’università di Roma, allora occupata da giovani di sinistra (come peraltro quasi tutti gli atenei italiani in quell’anno fatale).

Un assalto guidato da Almirante e dal collega deputato Giulio Caradonna, «una scena immortalata», scrive Conti, «dalla celebre foto di Almirante che ride sulla scalinata della facoltà di Giurisprudenza (da dove partì l’assalto) mentre è attorniato dai fascisti che brandiscono mazze e oggetti contundenti. Una scena inimmaginabile per qualsiasi altro segretario di partito o esponente di primo piano democristiano, comunista, socialista o liberale che fosse».

Poco più di un anno dopo, fu proprio quell’Almirante a tornare alla guida del Movimento sociale, eletto all’unanimità dal comitato centrale: una leadership auspicata pure da Rauti, che da tempo si era posto al di fuori del partito fondando il Centro studi Ordine nuovo, fucina di eversori dichiarati, che per anni avrebbero insanguinato l’Italia a suon di bombe.

Lo stesso Rauti, è noto, venne arrestato e indagato per la strage di Piazza Fontana, uscendo però rapidamente dalle inchieste. E d’altra parte fu proprio questo suo coinvolgimento a consentirgli di spiccare il volo che lo avrebbe portato in parlamento nel 1972. Mentre nel frattempo la sua creatura politica era prontamente tornata sotto l’ombrello del partito, e si è sempre detto che avvenne proprio per meglio difendersi in vista della stagione stragista.

La quale non esaurì affatto la vitalità, chiamiamola così, di un certo virilismo di destra: coltivato per anni sia da Almirante sia da Rauti, ebbe infatti modo di esprimersi attraverso un’impressionante escalation di violenze in ogni parte d’Italia.

 Numeri parzialissimi vennero forniti in parlamento il 9 dicembre 1969, dunque all’immediata vigilia della “madre di tutte le stragi”, dall’allora ministro dell’Interno Restivo: 122 denunce per apologia e manifestazione fascista, 44 per riorganizzazione del partito fascista, 23 attentati commessi con armi, materie esplodenti o incendiarie da elementi appartenenti a formazioni politiche di estrema destra che avevano preso di mira sedi di partito e associazioni politiche, edifici universitari e altri obiettivi politici e sindacali. E da quel momento in poi le bombe iniziarono a uccidere nelle banche, sui treni, nelle piazze. E nelle stazioni.

Eversivi 

Caratteristica precipua del Movimento sociale di Almirante e Rauti, d’altra parte, fu quella di offrire posti in parlamento a personaggi delle forze armate e dei servizi segreti, come i generali de Lorenzo e Miceli, malamente coinvolti in vicende eversive (il piano Solo, la Rosa dei Venti), come peraltro era accaduto allo stesso fondatore di Ordine nuovo.

E di Almirante si ricorda sempre troppo poco l’incriminazione (lo salvò solo una provvidenziale amnistia) per favoreggiamento nei confronti di Carlo Cicuttini, stragista di Peteano oltre che piccolo dirigente friulano dello stesso Msi.
Mentre non troppi anni fa, era il 2007, l’attuale presidente del Senato Ignazio la Russa partecipò a Milano ai funerali di Nico Azzi: un nome che forse non dirà molto, ma ben noto alle cronache dello stragismo, perché nel 1973 tentò di far saltare in aria il treno Torino-Roma dopo essersi lungamente aggirato tra gli scompartimenti con una copia di “Lotta Continua” in bella vista (ma la bomba gli esplose tra le gambe mentre la innescava, nella toilette del convoglio).

Sono tutte vicende note a chi oggi detiene le leve del potere da destra. Forse non lo sono altrettanto a chi ha affidato quelle leve alla presidente Meloni e ai suoi. L’anagrafe conta molto, è chiaro. Ma i libri servono soprattutto a questo, nell’Italia smemorata dei nostri giorni. E quello di Davide Conti è da tenere sempre a portata di mano.


Fascisti contro la democrazia (Einaudi 2023, pp. 330, euro 19) è l’ultimo libro di Davide Conti

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