I romanzi molto spesso si chiudono (si chiudevano) o con una morte o con un matrimonio; non necessariamente coincidendo con un esito tragico o un lieto fine, visto che da una morte può nascere una liberazione e certi matrimoni sono frutto dei più desolanti fallimenti. Il libro che Gianluca Herold ha dedicato alla vicenda delle Bestie di Satana (Il più bel trucco del diavolo, Rizzoli) comincia invece con un matrimonio, o quasi: dopo aver scontato sedici anni di carcere Andrea Volpe, il protagonista forse più indecifrabile dell’intera vicenda, ha celebrato quest’anno l’unione civile con un giornalista (poi trafficante di droga) brasiliano conosciuto in cella. Herold è stato presente al matrimonio, pur avendo rifiutato di fare da testimone. L’evento felice è raccontato con un realismo quotidiano: nervosismo tipico di tanti matrimoni, piccoli inconvenienti buffi, speranze. Poi salto netto a vent’anni prima, 2004: la rivelazione che lo sposo (l’unito civilmente) italiano ha ucciso la sua ex ragazza a colpi di pistola e di badile – un personaggio aggiunge che «i cani le hanno mangiato la faccia»; quest’ultima notizia verrà poi falsificata, ma l’atrocità piomba sul lettore come una botta.

Il metodo

La figura narratologicamente preferita da Herold è il flashback: dal 2004 si risale al 1999, a quando nel Varesotto scompaiono due fidanzati, Fabio Tollis e Chiara Marino – la scomparsa si guadagna spazio in tivù, Chi l’ha visto? ne parla a lungo, il padre di Tollis non si dà pace ed è lui il primo che indirizza le indagini sulla pista del satanismo. Da lì ancora più indietro, a quando il gruppo comincia a formarsi partendo da una banale esperienza provinciale di musica heavy metal, con tutti i parafernalia demoniaci allora di moda; paccottiglia di seconda mano, pentacoli, 666, candele nere, “blood theatre” tatuato sull’ombelico, il Necronomicon di Lovecraft preso sul serio, timidi accenni di orgia. Più patetici che pericolosi. Fino a quando nel gruppo entra appunto Andrea Volpe, che di satanismo fino a quel momento non sa nulla – però, quando gli dicono che Chiara Marino deve essere eliminata, invece di alimentare le fantasie e il chiacchiericcio dice semplicemente «ho un piano». La storia di quei ragazzi cambia di colpo, Volpe è uno che non sa che cosa sia la violenza simbolica ma di quella reale si intende parecchio, se c’è da ammazzare si ammazza e non si può più tornare indietro. Il delirio si trasforma in atti concreti, prosaici, con tutti i problemi pratici che un omicidio comporta; sotterrare, scavare le buche, capire se uno è già morto o solo svenuto; è un pantano da cui non si viene più fuori, nemmeno Satana ormai è più utile. Volpe è l’elemento che fa precipitare il composto chimico, ma chi è Andrea Volpe?

Altro fondamentale flashback, all’infanzia di Volpe e addirittura ai genitori prima che lui nascesse. Genitori che si sono sposati senza amore, la madre Vincenza dice (traduco dal dialetto ebolitano) «mi sono sposata perché volevo andarmene da casa il più in fretta possibile, se sapevo che mio marito era così andavo a fare la zoccola che era meglio». Il padre ha come regola che non si picchiano i figli, ma tutti gli altri sì, moglie compresa; il piccolo Andrea, grassottello, è bullizzato a scuola, violentato dal fratello maggiore, molestato dal prete (ma a fare il chierichetto ci torna sempre, volontariamente). Herold racconta senza che mai quel che racconta possa sembrare un giudizio né una giustificazione – Andrea Volpe ha la durezza come difesa, la voglia di vendicarsi come stella polare; diventa grosso, temuto a scuola, tenuto d’occhio dalle maestre («adora Jim Morrison e ha problemi con le doppie»). Il diario di Mariangela, la ragazza che lui ucciderà perché «sa troppo», è il tipico documento di quel che ora si chiamerebbe un amore tossico: lei gli crede quando lui dopo averla picchiata le mormora parole dolci, è vittima della sindrome del «ti salverò».

La lingua

Ma sono io che in questo momento sto usando un linguaggio stereotipo e sciatto, Herold non se lo permetterebbe mai. Anzi, è bravo a mescolare l’antilingua burocratica, i verbali della polizia e del processo, con la presa narrativa diretta, con dialoghi credibili fatti di anacoluti e di ellissi, spingendosi fino al dialetto più impervio; e non si tira indietro di fronte a reazioni poco protocollari (quando i carabinieri, su indicazione di Volpe stesso che ha iniziato a collaborare, trovano i due cadaveri di Fabio e Chiara, registra un soddisfatto «qua ci arrivano i gradi»). Insomma ti tira dentro: il crime diventa, senza che si capisca esattamente quando, un romanzo a pieno titolo (come nell’esempio dei grandi, diciamo almeno come in Compulsion di Meyer Levin, per non osare i classici). E come in tutti i romanzi di razza, non manca la protesta che il suo libro non sia un romanzo («sarebbe un perfetto espediente romanzesco. Fuori dai romanzi però…»).

Se ci fosse da scommettere sul talento di un esordiente, io su Herold ci scommetterei. Ha grinta, orecchio da vendere, ha voglia di lavorare, l’intarsio dei temi e dei tempi è perfino troppo maturo; quella che sui media è stata trattata come una vicenda clamorosa di serial killer satanisti (tre omicidi acclarati, un’induzione al suicidio, altri quattordici omicidi sospettati ma senza prove) diventa nelle sue pagine un intreccio interessante e misterioso di casualità e di personalità insicure; chi troppo fragile, chi sbruffone e bisognoso di leadership, chi semplicemente indolente, chi quasi malato. Il protagonista ha un percorso che non è mai prevedibile, con lati oscuri che nemmeno il romanzo può illuminare (la famosa “prova di coraggio”, che il gruppo gli ha imposto per l’affiliazione, resterà non detta); il giornalismo spiega e suggerisce da che parte devi stare, la letteratura accumula contraddizioni. Anche le parole dei “tecnici”, gli psichiatri da cui Volpe una volta uscito va in terapia, i vari “scissione bipolare” o “disturbo di personalità multipla”, sono flatus vocis, linee che si confondono con altre linee e non spiegano nulla, come nulla spiega l’abuso di droga. Quando il compagno brasiliano deve scontare gli ultimi mesi agli arresti domiciliari, sono i genitori di Volpe che lo ospitano, e lì scopre alcuni altarini poco onorevoli del padre; la madre Vincenza, quando il figlio le dice che tutti i giornali hanno parlato di lui, gli risponde di non darsi delle arie. Sono personaggi tridimensionali, non figurine da talk show.

L’operazione

Il titolo del romanzo deriva da uno dei piccoli poemi in prosa di Baudelaire; lì è addirittura il diavolo che parla e ammette di essersi solo una volta sentito in pericolo di venir smascherato – quando ha sentito un predicatore più intelligente degli altri dire che la più bella astuzia del diavolo è farci credere che non esiste. Andrea Volpe, prima che tutto partisse, chiacchierando con Bontade (quello che sarà poi indotto al suicidio) nota che il male domina nel mondo e «forse tanto vale credere nel diavolo»; è una frase buttata lì senza peso, ma Bontade è un ingenuo e il giorno dopo gli presenta Nicola Sapone, che fa già parte del gruppo. Bontade prende alla lettera una frase distratta, dove non c’entra il diavolo ma la disperazione; Volpe non stringe un patto col diavolo, quando gli chiedono cosa vorrebbe in cambio della sua anima risponde annoiato “niente”. Herold, quanto a lui, non si sente del tutto sicuro tutte le volte che va a casa di Volpe per intervistarlo: «aspetto che assaggi per primo i piatti che cucina e le tisane che versa nella teiera» – se ne vergogna un po’, ne ridono insieme. Eppure. Se crediamo che il diavolo non ci sia, allora c’è. Herold tacita i brividi e prova a teorizzare sul finale: «raccontare il male che si affaccia sul dopo, raccontare i carnefici e attraverso il loro sguardo le vittime, mi ha separato, fatto a pezzi. È un’operazione diabolica in senso etimologico, che divide». Non solo in senso etimologico, caro Herold – è la letteratura che ci divide da noi stessi.

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