Quando ho letto per la prima volta The Chronology of Water di Lidia Yuknavitch, in vista della traduzione, ho pensato che non potesse esserci titolo più azzeccato. In questo memoir disorientante, in cui gli episodi della vita dell’autrice appaiono attraverso “flash”, “lampi sulla retina”, Yuknavitch tenta di dare forma, coerenza, misura alla massa indistinta del dolore e della rabbia, proprio come un sistema di organizzazione cronologico prova a fare con una forza altrettanto travolgente ed elusiva – quella del tempo.

«I miei ricordi si intrecciano come acqua» scrive Yuknavitch in una delle prime pagine del libro, e continua: «Tutti gli eventi della mia vita si intrecciano nuotando. Senza cronologia. Come nei sogni». La memoria fa acqua da tutte le parti, tentare di fissare nella scrittura un ricordo incorrotto, incontaminato (“puro”, potremmo dire) è un’impresa impossibile, perché nel momento in cui si prova a strutturarlo secondo una trama e un contesto si finisce inevitabilmente per snaturarlo. E allora lo sforzo di Yuknavitch di dare forma all’informe – il padre violento, la madre depressa e alcolista, la sorella adorata, la dipendenza, il lutto, il nuoto agonistico – si scontra in continuazione con un’impossibilità: «Porca miseria» scrive spesso, «fatemi riprovare».

Ripensando adesso, dopo mesi, alla traduzione di La cronologia dell’acqua, mi sembra che il processo di resa in italiano mi abbia richiesto soprattutto fluidità per accordarsi alla natura liquida della narrazione. Scavalcare gli scogli del ricordo è un tentativo destinato a fallire, okay, ma si può almeno cercare di aggirarli. È quello che fa Yuknavitch affidandosi allo stile: amaro, sarcastico, lirico, furioso, tragico, lavico, esplosivo, incantato, zuccheroso, in certi brani persino patetico.

«So come far vibrare la pagina» scrive, ed è esattamente così. Come ricostruire, per esempio, la disintegrazione del primo matrimonio? Affidandosi al sarcasmo:

«Ricordo di aver guardato la sommità della sua testa e aver pensato: un angelo, e subito dopo: sputagli in testa. Davvero, non so perché».

E all’amarezza:

«Così mi accinsi a rovinare tutto. Per prima cosa una notte mi ubriacai e tirai un pugno in faccia a Phillip. Sì, tirai un pugno al musicista e pittore più stupendo e talentuoso che avrei mai incontrato nella vita, nonché l’uomo più gentile e passivo che avessi mai incontrato, dritto in faccia. Il più forte possibile. E sapete cosa dissi? Dissi: “Tu non vuoi niente. Mi uccidi col tuo non volere niente”. Elegante. Astuto. Maturo. Emotivamente sorprendente. Sono la figlia di mio padre».

Una lingua intensa

Traducendo La cronologia dell’acqua mi sono impegnata a individuare il passo della narrazione e a distaccarmene ogni volta che era necessario. Prendere il ritmo e perderlo. Trovare la voce e deformarla. Un andamento così scostante può confondere e aumentare i dubbi, ma qui mi è venuto in soccorso lo stile di Yuknavitch. Quando la materia è complessa, il rischio più grande – quello che cerco di evitare a tutti i costi traducendo – è appiattire la lingua, uniformarla a uno standard neutro, “spegnerla”. La lingua di Yuknavitch, però, è talmente intensa, carica di rabbia e dolore e intenzione, che sembra resistere attivamente al pericolo di sbiadirsi.

Una scena di sesso a titolo d’esempio:

«Ore di donna su donna su donna che nelle solite vite non potevano permettersi un abbandono tanto selvaggio. A volte il pugno di Hannah nella mia figa la bocca di Claire sulla mia o io che succhiavo le sue tette epiche. A volte Hannah stesa sulla pancia io su per il suo culo con uno strap-on Claire dietro di me che mi penetrava toccandomi davanti – un talento che aveva intuito. A volte Claire a carponi io e Hannah che le riempivamo ogni buco le leccavamo ogni bocca le sfregavamo la clitoride facendola urlare facendole tremare tutto il corpo la testa gettata indietro il suo urlo di donna liberata orgasmo primario e macchie di merda e saliva e lacrime».

O la gioia mista a rabbia di una matricola che arriva all’università, sfuggendo all’incubo della vita famigliare:

«Quando arrivai a Lubbock, qualunque cosa Lubbock fosse, mi sentii effettivamente liberata. La mia stanza i miei amici il mio cibo il mio alcol la mia musica il mio sesso i miei soldi i miei pensieri il mio corpo la mia la mia la mia libertà di essere chi volevo dove volevo come volevo montò come un vulcano – come qualcosa che era stato represso troppo a fondo nel mio corpo e doveva esplodere. La sensazione di tutte le matricole. Ma solo alcune di noi portano nella pelle e nelle ossa i segreti furiosi di una figlia».

Il ritmo

Sentivo poi che il ritmo era essenziale nella resa. All’occorrenza, il fluire della narrazione doveva saper rallentare, raccogliersi in pozze davanti a cui fermarsi e riflettere. Come in questo brano struggente, maturato nel dolore per la morte della figlia e offerto al lettore quasi fosse una cura, in cui Yuknavitch raggiunge picchi di lirismo:

«Raccogliete pietre.

Tutto qui. Ma non pietre qualsiasi. Sei una donna intelligente quindi cerchi l’inimmaginabile nell’ordinario. Vai in posti dove normalmente non andresti da sola – gli argini dei fiumi. Il fitto del bosco. La parte di costa oceanica dove gli sguardi delle persone svaniscono. Guada tutte le acque. Quando trovi un mucchio di pietre, osserva a lungo prima di scegliere, lascia che gli occhi si abituino, usa quello che hai imparato nella lunga attesa per attendere. Lascia che l’immaginazione trasformi ciò che sai. D’un tratto una pietra grigia diventa cinerea o si annebbia in sogno. Un anello attorno a una pietra porta fortuna. Trovare una pietra rossa significa trovare il sangue della terra. Le pietre blu ti invitano a credere in loro. Macchie e motivi sulle pietre sono rimasugli di altri paesi e terreni, domande maculate. Gli agglomerati rocciosi sono il movimento della terra nella libertà dell’acqua, levigati in un oggettino che puoi tenere in mano, strofinare sul volto».

Ma il ritmo deve anche saper accelerare, diventare tumultuoso, produrre la spuma bianca delle rapide. Come la volta in cui il padre costringe Lidia bambina, ancora incapace di andare in bicicletta, ad affrontare una discesa spaventosa:

«Vento sul viso i palmi pizzicano le ginocchia fanno male pedalo all’indietro veloce e veloceveloceveloceveloce trattengo il respiro e la pelle formicola come in cima agli alberi ragni terribili zampettano sulla pelle come al grand canyon la testa bollente curvacurvacurvacurva sto curvando sto frenando non mi sento più i piedi non mi sento più le gambe non mi sento più le braccia non mi sento più le mani la testa il cuore la voce di mio padre che grida brava ragazza mio padre che corre giù dalla collina mio padre mi ha fatto questo mio padre mi ha spinto gli occhi si chiudono i muscoli si allentano lascio andare lascio andare tanto sonno tanto leggera galleggio galleggio oggetti veloci occhi chiusi colpire violentemente degli oggetti schiantarmi il nulla».

Il filo del pensiero

Quando finisco di tradurre un libro mi rimane spesso la sensazione che manchi qualcosa, che mi sia sfuggito qualcosa, o che io l’abbia frainteso, interpretato troppo o troppo poco. Riflettendoci, so che saprei giustificare ogni scelta, ricostruire il filo di pensiero che mi ha portata a preferire un termine anziché un altro, una struttura sintattica anziché un’altra; ma se mi capita di parlarne con qualcuno – o se mi chiedono di riflettere analiticamente sul processo di traduzione, le strategie che ho usato per affrontare il testo, e così via – in un primo momento mi trovo in difficoltà. Perché sento di essermi affidata soprattutto a una sorta di memoria muscolare della lingua, maturata durante il processo di lettura e rilettura e scrittura e riscrittura e revisione e ri-revisione con cui traduco, che passaggio dopo passaggio mi fa entrare sempre più “dentro” la lingua dell’autore.

Proprio in La cronologia dell’acqua ho trovato una metafora che mi sembra rendere bene questa sensazione. «A volte misuro gli eventi nel tempo che ho impiegato per vincere una gara» scrive Yuknavitch, la nuotatrice. «Duecento metri farfalla: 2:18.04. Il tempo per camminare dalla mia macchina all’ufficio. Cento metri rana: 1:11.2. Il tempo per lavarmi i denti. Così fanno i nuotatori. È la memoria dei muscoli».


“La cronologia dell’acqua” di Lidia Yuknavitch è stato pubblicato da nottetempo nel 2022 (pp. 336, euro 17) e tradotto da Alessandra Castellazzi.

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