- Stabilito dunque che l’autobiografia è impossibile, perché non ricostruire una storia personale di assoluta finzione in cui riportare in vita i morti per pareggiare i conti?
- Una letteratura in cui non è il narratore a indignarsi, ma il lettore. Opposta alla letteratura rassicurante che lascia il lettore lì dove l’ha trovato, al sicuro.
- Raccontiamolo che bene e male sono contigui, che oppressore e vittima sono spesso la stessa persona, e quella persona siamo noi. Contraddittori, ambigui, con quale immaginario siamo cresciuti? La prossimità tra opposti, difatti, è in origine un immaginario.
«La paziente parla molto velocemente, d’impulso, e (pare) senza discriminazione... cosicché l’importante e il banale, il vero e il falso, il serio e lo scherzoso sgorgano in un flusso rapido, non selettivo, quasi confabulatorio... può contraddirsi completamente nel giro di pochi secondi... dirà di amare la musica, di non amarla, di avere un femore spezzato, di non averlo».
Nel caso di schizofrenia descritto da Oliver Sacks trovo la sintesi esatta di ciò che scrivo e voglio scrivere, insieme al profilo psicologico, patologico della protagonista dei miei libri, in particolare del mio romanzo del 2017, La più amata: una quarantenne che, mai rievocando la morte dei genitori, torna e ritorna con la mente alla vendita della casa con la piscina – scena primaria, dolore acutissimo. Lei che riesce a piangere solo la perdita della piscina.
In rete, su Amazon, commenti al romanzo: «Una stronza che sputa nel piatto dove mangia», scrive Fabio. E Angela: «Magari ce l’avessi avuta io una piscina!»
Ripercorrendo infanzia e adolescenza, cercando di indagare sulla figura del padre morto da oltre vent’anni, la donna del romanzo scopre indizi che confermano i suoi sospetti, ovvero che l’uomo sia stato un massone, pidduista, crudele - assassino?
Invece che prenderne le distanza però, lei lo erge a modello, a oggetto di devozione amorosa. Questa protagonista sguaiata, spregiudicata, sciocca, disperata, sono io. O almeno: lei porta il mio nome (nome e cognome), così i genitori i nomi dei miei genitori. Nomi reali hanno gli altri personaggi, e i luoghi.
Pareggiare i conti
Memoir, autofiction? E se sì, fino a che punto?
Partiamo da ciò che è reale: avevo un padre, una madre. Io avevo una piscina. Questo posso garantire, non altro. Poiché la memoria è fallace, e noi non facciamo che fabbricare ricordi fasulli, o comunque manipolati.
Stabilito dunque che l’autobiografia è impossibile, perché non ricostruire una storia personale di assoluta finzione in cui riportare in vita i morti non per eternarli in forma idealizzata, non per tirarli a lucido, ma per pareggiare i conti?
Il mio anno del pensiero magico, l’anno in cui ho deciso di scrivere dei miei morti, non ho messo insieme i pezzi della loro vita, nessuna ricostruzione esatta, piuttosto distruzione. La reinvenzione di un tempo verosimile (quasi vero) per dare loro la possibilità di morire ancora. Il privilegio di morire innumerevoli volte finché avrò vita io.
Così nel libro uscito nel 2021, Sembrava bellezza: riandare all’adolescenza per pareggiare i conti stavolta con i compagni di scuola, punendoli con l’immaginazione, tranne poi scoprire che nessuno mi aveva emarginata, che non ero unica neppure nella sofferenza: quel dolore era di tutti. E allora, in un lampo di comprensione tardiva della giovinezza, entrare nella vecchiaia.
Ecco un altro elemento di verità: sono vecchia. Danneggiare, mortificare, vendicare, scoprire di aver sbagliato senza riparare, accusare ingiustamente, perseguitare, tutto attraverso la letteratura.
Estella
Un atto sconcio, ammetto. Specie se compiuto da un io narrante privo di pudore.
Al posto della proiezione di un sé mirabile, la creazione di un sé peggiorativo talmente credibile, dati concreti a rafforzare il cortocircuito, da suscitare sdegno.
Beninteso: non esercizio fine a se stesso, tantomeno provocazione a vuoto, bensì gesto di responsabilità: farsi carico dell’ipocrisia, del male mascherato da bene. Mostrarlo da dentro, incarnandolo, mai condannandolo, semplicemente riproponendo il costume sociale, l’attitudine morale di giustificarsi e assolversi.
Una letteratura quindi in cui non è il narratore a indignarsi, ma il lettore. Opposta alla letteratura rassicurante che lascia il lettore lì dove l’ha trovato, al sicuro.
Raccontiamolo che bene e male sono contigui, che oppressore e vittima sono spesso la stessa persona, e quella persona siamo noi. Contraddittori, ambigui, con quale immaginario siamo cresciuti? La prossimità tra opposti, difatti, è in origine un immaginario.
Nel mio caso Grandi Speranze di Dickens, Estella, una delle prime bambine cattive nella storia della letteratura. Leggere e ripromettersi: voglio scrivere romanzi solo su Estella. Fare fuori Pip, e dare la scena a lei, cattivissima, feroce Estella. Allevata per vendicare i torti subiti da Miss Havisham, addestrata a far piangere i maschi.
Da una parte perciò Dickens, dall’altra estati di solitudine. Eccomi dodicenne annoiata in un mondo dove esistevano ancora il padre, la madre, la piscina - torna la piscina. Eccomi a rovistare nei cassetti e scovare tra indumenti personali tomi di cinquecento, seicento pagine.
Qui si apre la mia esistenza di lettrice libera e clandestina. Comincio con Lo stallone. Proseguo con L’uomo che non sapeva amare. Termino con I mercanti di sogni, Piranha, Stiletto. Autore: Harold Robbins.
Complicate trame di intrighi internazionali, spionaggio, omicidi a Hollywood, il tutto che ogni volta trova pacifica risoluzione nel sesso. A dodici anni leggo di un lui e una lei che praticano sesso orale in aereo, volo di linea, adagiati sulla pelliccia di visone.
Tra gli orfani di Dickens
Se devo dunque trovarmi un posto in letteratura dico: tra gli orfani di Charles Dickens e il visone di Harold Robbins. Dico che inventare è prima di tutto ricordare.
A dimostrazione le biografie degli autori: Charles Dickens bambino viene mandato a lavorare dai genitori nella fabbrica di lucido da scarpe, per poi essere abbandonato. L’orfanitudine - di fatto o spirituale - che è quella di Pip, di David Copperfield e di tutti i personaggi dickensiani.
Così l’innamoramento giovanile per Maria Beadnell, figlia di un funzionario di banca, che lui ricerca a distanza di vent’anni, troppo tardi perché l’amore si compia, troppo tardi per tutto. Ebbene, questo rimpianto lungo una vita non è forse quello di Pip per Estella?
Quindi Harold Robbins che in società narra di un killer pagato per ucciderlo ai cui agguati lui è riuscito a sfuggire, ma in futuro? E di una prima moglie ballerina cinese morta per il morso di un pappagallo.
Adesso: quanto è importante che il pappagallo omicida sia esistito sul serio o frutto di fantasia? Nel momento in cui diventa materiale narrativo, scritto o orale, si perde la percentuale di realtà e di immaginazione - è giusto perderla.
L’(in)dicibile
A questo punto entra in campo il dilemma del dicibile. Proprio mettendosi in scena in prima persona il principio morale è minacciato - come riscontrabile dai commenti in rete: «Scusate, invece che pubblicarle un libro a questa non potevano pagarle uno psicologo?» scrive Andrea. «Perché il padre poverino è morto, sennò vedi che fine faceva lei dopo questo romanzo» - Cristina.
I lettori ignorano l’avvertenza: «I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età̀ di mia figlia, il luogo di residenza, altro». Dove altro potrebbe essere tutto, niente, parte - e se parte, quanto?
Poco conta nella misura in cui l’indicibile non è mai una questione personale. O meglio: quando sconvolge, se sconvolge, ha superato i confini dell’io. L’indicibile trasversale che la letteratura ha la possibilità di cogliere e svelare in una mimesi perfetta che è proprio la verità garantita, di continuo certificata (questa è una storia vera).
Il congegno attraverso il quale avviene la deflagrazione, e a cui la forma contribuisce: tono confidenziale, intimo, come di qualcuno che si stia confessando.
Flusso di coscienza, sfogo, persino diario («Avvertenza a chi lo volesse comprare: non è un romanzo, è il diario segreto di una cretina» - scrive Cinzia).
Alla luce degli equivoci, e della rabbia suscitata, è perciò evidente che quel narratore, fingendo di parlare a titolo individuale, dando l’illusione di distruggere la propria reputazione con la postura dell’autofiction, mette in pericolo la reputazione collettiva. Motivo per cui è irrilevante quanto ci sia di reale nella vicenda, piuttosto quanto sia creduta reale. Allora l’indicibile è comune.
Vale la lezione di Humpty Dumpty: «Quando io uso una parola, essa significa esattamente ciò che scelgo di farle significare - niente di più niente di meno (…) Si tratta di sapere chi è il padrone - tutto qui».
Per tanto oggi vi chiedo: mi volete come padrona?
Se sì, seguitemi, ma non fidatevi.
Dal 6 all’8 giugno a New York il nuovo festival di narrativa italiana contemporanea Multipli Forti. Tra i protagonisti, Teresa Ciabatti, Claudia Durastanti, Carlo Lucarelli, Valerio Magrelli, Walter Siti e Sandro Veronesi.
© Riproduzione riservata