Affermare la propria diversità culturale, non vuole dire essere in competizione l’uno con l’altro o rivendicare la proprietà di una certa tradizione. Identificare il proprio patrimonio vivente serve, all’opposto, per individuare i punti di unione con altri popoli e con altre culture
La cultura non è un lusso, ma un bene primario degli esseri umani. È una necessità e, al tempo stesso, uno degli scopi centrali della civiltà. La cultura guida la società molto più di quanto possano fare i politici perché essa crea legami che uniscono gli uni agli altri nei modi più profondi.
In tutte le sue diverse espressioni – dal cibo che mangiamo ai miti e alle storie con cui ci identifichiamo – la cultura è il nostro sistema di credenze che prende vita. Ecco perché coloro che cercano di conquistare una società per prima cosa distruggono o rubano le manifestazioni materiali e immateriali della cultura; perché esse sono fonti di potere più formidabili degli eserciti.
Basti pensare ai grandi saccheggi nei musei europei durante la Seconda guerra mondiale o, più di recente, alle distruzioni dei manufatti dell’antico Afghanistan da parte dei Talebani, o alle devastazioni di Palmira in Siria e, ora, tristemente, a quanto sta avvenendo in Ucraina. Per questo la cultura è la forza più potente del pianeta. E alcuni dati economici sembrano confermarlo.
Il peso economico della cultura
Negli Stati Uniti d’America, secondo l’analisi condotta nel 2022 dal Bureau of Economic Analysis, la cultura pesa per il 4,4 per cento sul prodotto interno lordo, generando un valore aggiunto di oltre mille miliardi all’anno. Un dollaro investito in attività culturali, negli Usa, produce 2,5 dollari di profitto, e se si esamina il trend degli ultimi dieci anni emerge come questi valori siano fortemente in crescita, al netto della pandemia da Covid-19. Ciò è confermato dai dati presentati quest’anno alla conferenza mondiale delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo, secondo cui, a livello globale, le imprese culturali incidono in media sul 3,3 per cento sul prodotto interno lordo, rappresentando l’8 per cento dell’economia mondiale.
In Italia, un recente rapporto presentato da Symbola e Unioncamere mostra come la cultura generi un valore aggiunto di 95,5 miliardi di euro, con un aumento del 6,8 per cento nel 2022 rispetto al 2021. Complessivamente il sistema culturale italiano attiva quasi 272 miliardi di euro, pari al 16 per cento dell’economia nazionale.
Confrontando l’Italia con la media mondiale è, quindi, possibile evidenziare quanto la cultura pesi sul sistema complessivo; tuttavia, in Italia, per ogni euro investito nel settore, si generano 1,8 euro di profitti diretti e indiretti, dunque una cifra inferiore rispetto alla media, che mostra quanto ancora si possa crescere in tale ambito.
Un bambino al tavolo dei grandi
Nonostante la cultura sia il collante che unisce le civiltà e il motore del cambiamento sociale, come i dati economici confermano, chi ragiona di cultura è costretto a sedersi al tavolo dei bambini durante il “pranzo” in cui i leader mondiali discutono di politiche pubbliche.
Se si considerano, ad esempio, i principali indicatori elaborati dalle Nazioni unite per misurare lo sviluppo sostenibile, colpisce che la cultura sia assente come dato a sé stante. Assecondando la tesi secondo cui la cultura è trasversale, non vi sono modi di misurarne l’effettivo impatto e il contributo in termini di sostenibilità.
Nessuno dei millenium goals, ad esempio, né dei target da raggiungere per assicurare uno sviluppo sostenibile delle nostre comunità, in termini economici, ambientali e sociali, è specificatamente dedicato alla cultura. Nel settembre del 2022, i ministri della Cultura di tutto il mondo riuniti a Città del Messico per volontà dell’Unesco hanno lanciato un appello affinché la cultura fosse pienamente integrata nell’agenda internazionale post 2030, sottolineandone la sua funzione di bene pubblico comune.
Eppure la cultura è determinante per il nostro futuro. Per dimostrarlo, restringiamo il campo di analisi a una delle tante manifestazioni della nostra cultura, ovvero il così detto living heritage, o patrimonio culturale immateriale, costituito da quelle tradizioni, pratiche, conoscenze, ritualità che, tramandandosi di generazione in generazione, costituiscono il bagaglio identitario di una comunità. Facciamo qualche esempio. Prendiamo tre tradizioni riconosciute dall’Unesco patrimonio dell’umanità: la danza dell’isola di Togo, il richiamo dei cammelli negli Emirati Arabi o l’arte dei pizzaioli napoletani. Cosa hanno in comune queste tre espressioni culturali completamente diverse che vengono da tre continenti diversi?
In tutti e tre i casi i protagonisti sono i giovani. Sono loro che assicurano la continuità di queste tradizioni. Dinanzi a un mondo globalizzato che ci vuole tutti uguali, il patrimonio culturale vivente è ciò che differenzia gli uni dagli altri: se perdiamo questo patrimonio, perdiamo le nostre radici, e senza radici non sappiamo più dove andare. Per costruire il futuro servono le radici, e serve che i giovani conoscano queste radici e le sentano proprie. Per questo la cultura è un bene pubblico comune.
Tuttavia, affermare la propria diversità culturale, non vuole dire essere in competizione l’uno con l’altro o rivendicare la proprietà di una certa tradizione. Identificare il proprio patrimonio vivente serve, all’opposto, per individuare i punti di unione con altri popoli e con altre culture. Attraverso il patrimonio culturale immateriale, infatti, è possibile costruire ponti tra paesi diversi e superare i confini nazionali.
Creare pace
Per comprendere meglio questa ulteriore funzione della cultura come bene comune, continuando con gli stessi tipi di esempi, prendiamo altre tradizioni riconosciute dall’Unesco: la transumanza (che consiste nello spostare le greggi da una parte all’altra secondo il ritmo delle stagioni), la falconeria (pratica venatoria basata sull’uso di falchi o altri uccelli rapaci per catturare prede) o il wrestling (uno sport in cui due avversari cercano di spingersi a terra).
Si tratta di espressioni culturali che superano i confini nazionali e coinvolgono paesi politicamente diversi tra di loro, quando non in conflitto. Il wrestling, per esempio, unisce, sotto l’egida dell’Unesco, le due Coree, che hanno trovato, sul terreno della cultura, un modo di dialogare. Così la falconeria che lega l’occidente (Italia compresa) al mondo arabo, livellando ogni limitazione anche linguistica.
O la pratica della transumanza, diffusa in oriente come in occidente, a nord come a sud, dalla Spagna alla Mongolia. Identificare, dunque, il proprio patrimonio culturale non è un modo per contrapporre il proprio sé agli altri, ma per trovare forme di congiunzione e punti di scambio. In questo modo la cultura è strumento di pace.
Vi è poi un altro motivo per cui la cultura dovrebbe “sedere al tavolo dei grandi”. Perché attraverso la cultura è possibile contrastare o mitigare gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici.
Per comprenderlo basta ricordare quanto è successo nella piccola isola di Pantelleria, nel cuore del Mediterraneo, lo scorso anno. In questo paradiso terrestre, quasi per intero ricadente in un parco nazionale, da millenni si coltiva la vite creando delle piccole conche nel terreno perché l’acqua è poca e il vento è tanto. Questa pratica agricola è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dieci anni fa. Lo scorso anno, dopo un inverno di tifoni e uragani del tutto insolito per questa area geografica, un incendio ha colpito Pantelleria.
Se si guardano le immagini di quell’incendio, si vede chiaramente come le fiamme non hanno colpito i terreni coltivati secondo quell’antica pratica, ma quei terreni incolti, abbandonati o coltivati in modo difforme. Aver preservato, dunque, questa antichissima espressione culturale, ha salvato buona parte del territorio, ed è ora necessario che le politiche nazionali riconoscano il valore in termini sistemici di queste tradizioni.
Sono solo alcuni esempi, tra i tanti possibili. Ma sono esempi che confermano come sia necessario investire sulla cultura se si vogliono trovare le soluzioni alle sfide del futuro.
Il testo è una sintesi della lectio tenuta al World Culture Summit, Abu Dhabi, 5 marzo 2024.
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