Fa piacere che gli atenei si occupino del rispetto linguistico delle differenze. A Trento già nel 2019 era stata redatta una guida “per un’università più inclusiva”, ma il 28 marzo 2024 il consiglio di amministrazione ha approvato il regolamento generale di ateneo che introduce una novità più che rivoluzionaria: l’uso del femminile sovraesteso per le cariche e i riferimenti di genere. Per comprendere il significato di un’innovazione che il rettore ha definito «un atto simbolico per dimostrare parità a partire dal linguaggio dei nostri documenti», si legge (Titolo 1°, art.1, comma 5): «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone».

Forse qualcuno non è sicuro di avere inteso bene, e il rettore Flavio Deflorian chiarisce come abbia avuto origine la svolta a 180° del linguaggio corrente in cui il maschile, «superiore» anche non volendo, usa «comprendere» anche le donne (infatti Giorgia Meloni tiene alla gerarchia e gradisce essere chiamata “il” presidente): «Nella stesura del nuovo Regolamento abbiamo notato che accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso avrebbe appesantito molto tutto il documento. In vari passaggi infatti si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile.

Così, per rendere tutto più fluido e per facilitare la fase di confronto interno, i nostri uffici amministrativi hanno deciso di lavorare a una bozza declinata su un unico genere. Hanno scelto quello femminile, anche per mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione. Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni». Di conseguenza si suppone che lui attualmente firmi Flavio Deflorian, rettrice dell’Università di Trento, e che invierà le sue notifiche alla ministra dell’Istruzione e Merito che di nome fa Giuseppe.

Parità

In anni lontani, quando Tina Anselmi fece parte del governo in qualità di ministro del Lavoro (1976) il cerimoniale mantenne il maschile, e quando Nilde Iotti divenne presidente della Camera i giornalisti trovarono giusto definirla “presidentessa”, anche se presidente è un participio e resta invariato.

Resta difficile – gli stereotipi linguistici non si estirpano facilmente – credere che la scelta di Trento diventerà esemplare, ma va presa in considerazione l’onestà intellettuale del rettore Deflorian: pensare alla sensazione delle donne che quando sentono nominare «i diritti dell’uomo» non sanno se le riguarda mostra una sensibilità straordinaria in un rappresentante del patriarcato. Un uomo, dunque, che non solo proclama la parità, fortunatamente non dice «sono un femminista», ma è disposto a pagare in termini di potere la sopraffazione secolare proprio nella radice originaria del linguaggio. Ne va dell’appartenenza delle donne all’universalità: davvero le donne, il loro pensiero, la loro cultura delle donne sono forse davvero “universali”? L’uomo vitruviano di Leonardo esclude il femminile dalla perfezione teorica?

Ritengo particolarmente importante prendere in considerazione il fatto linguistico perché la testimonianza di Deflorian rivela il danno, fin qui irrimediato e irrimediabile, arrecato dal potere del linguaggio, colto nella sua origine remota. Infatti anche le donne cedono, se aspirano a posizioni di potere: si definiscono “avvocatesse”, addirittura “avvocato”, la “soldatessa” è errore di morfologia, ma non lo si corregge alle elementari, quando anche a quattro anni il bambino capisce che se “scolaro” fa “scolara”, anche “avvocato” fa “avvocata” e “soldato” “soldata”. E sarebbe bene non ridacchiare sull’architetta.

Vale la pena collegare Trento a precedenti esperienze, succedutesi negli ultimi anni per superare il gender gap verbale riferito al rispetto della differenza uomo/donna e, successivamente, al tentativo di estendere il rispetto delle diversità Lgbtq* nella lingua scritta. L’uso della reiterazione dei due generi era caduto da solo per la perdita di tempo insensata che richiede e arrivò, prima, l’asterisco e, successivamente, lo schwa, che sembra entrata nell’uso di qualche comune (si trova citato un esempio: “A partire da mercoledì #7aprile moltə nostrə bambinə e ragazzə potranno tornare in classe!”, che sarebbe diverso da “molti nostri bambini e ragazzi”). Vale la pena – per registrare ancora una volta la lentezza delle istituzioni – sapere che nel luglio 2022 fu chiesto di inserire nel regolamento del Senato il linguaggio inclusivo, ma che, ritenuto “questione etica” da FdI, fu bocciato a scrutinio segreto: niente par condicio di genere in parlamento.

Simbolico e semantico

Comparativamente appare chiaro che la modificazione tridentina al femminile ha a che vedere con la storia e la filosofia, come è normale quando si parla di linguaggio, mentre il ricorso alla grafica formale si rivela una forzatura faticosamente competitiva per dare rappresentatività a differenze sessuali non compatibili con la semantica e la linguistica. I generi grammaticali non sono solo sessuati. Riguardano la mente.

Se partiamo dalla sessualità, il nome di “dio” nel monoteismo patriarcale è ovvio sia concettualmente solo maschile, mentre è significativo che si usino parole diverse per dire “uomo” e ”donna”. Se invece diciamo “bambino” o “ragazzo”, il femminile ricorre allo stesso termine, con la “desinenza in -a” distintiva. Vale anche per maestro/maestra, ma se passiamo alla semiologia e prendiamo la parola “ministro” (termine che è quasi un calco del doppio comparativo di maestro/a) la cosa assume un altro aspetto: la morfologia identifica una donna, ma il potere ne maschilizza il ruolo e inganna la morfologia del linguaggio. Infatti la grammatica usa “segni” che indicano il maschile e il femminile, ma non fa riferimento tecnicamente alla sessualità: se diciamo che “tavolo” è maschile e “sedia” femminile, non è che poi si possono innamorare, a meno che tu non sia Gianni Rodari.

Se poi costatiamo che la sessualità – come la “natura” – è ancora così sconosciuta che fino a pochi decenni fa in Italia gay e lesbiche erano definiti “anormali” e sono ancora perseguitati, facciamo fatica a distinguere graficamente le nuove diversità. Cerchiamo di capire differenze e sensibilità semplificate nella sigla “lgbtq” a cui abbiamo aggiunto un “+” per lasciare aperta l’enumerazione: la scienza approfondirà oltre i pregiudizi e le tradizioni, ma restiamo bloccati dal fatto che chiunque debba denunciare un bambino all’anagrafe non ha alternative: sarà Mario o Maria.

Quindi le parole sono legate ai significati e aprono a tutti i ragionamenti sul simbolico e il semantico, compreso lo studio dei caratteri distintivi di ogni lingua o dialetto (senza entrare nelle metafore che si appellano al linguaggio della musica, della natura, dell’arte e anche, ovviamente, del corpo). Il tentativo dell’esperanto, ideato per comunicare universalmente, è fallito per ragioni prevalentemente grafiche. Forse l’Ia potrebbe inventare altri codici linguistici, ma bisogna studiare prima quale input ideologico darle. Restando al “tavolo” maschile e alla “sedia” femminile, bisogna che ci rassegniamo: la logica del linguaggio non ha sesso senza un contesto che lo esprima.

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