Vado a fargli visita quando posso. Casa Circondariale di Pescara, via San Donato, in un’area spoglia sporca e abbandonata, squallida e offesa. Palazzoni scrostati, lavori stradali mai conclusi, verde assente, latitante, scappato altrove o, più verosimilmente, ucciso dal cemento. È un tradimento questo quartiere, un deserto di marciapiedi sconquassati, di bottiglie di birra scadente rotte dappertutto, di plastica mai rimossa, decennale forse. Che sconforto.

C’è una negletta piazzetta vicino al carcere, dove campeggia un’assurda statua di Paolo Sesto, desolata, desolante, graffiata di graffiti inutili e incomprensibili.

Tutto è incomprensibile da queste parti. In un posto così ci puoi soltanto morire.

La lettera

Me ne parlò Luca Pakarov, giornalista free-lance, scrive anche per Il Manifesto, un compagno, un amico fraterno, un fagiolo anche lui. Mi confidò di avergli lasciato il mio indirizzo, e che mi avrebbe scritto presto. In effetti la lettera mi giunse di lì a poco, ma non me ne accorsi per oltre un mese. Era in un pacchetto, con un libriccino dentro. Me ne arrivano tanti.

Quando ebbi per le mani l’agile libretto pensai: «Ecco, un altro poeta che non leggerà mai nessuno, uno di quelli che crede di saperci fare e invece…». La copertina non mi piaceva, così come il titolo, Senza speranza e senza disperazione. Incominciai a sfogliarlo, svogliatamente. Lessi una poesiola breve, epigrammatica quasi, la prima che mi capitò.

Ne rimasi folgorato, e mi commossi all’istante: «Vorrei essere lasciato in pace / Nessuno che ti dica più niente / Nessuno che ti faccia promesse / Nessuno che ti regali speranze / Nessuno che ti dica d’amarti».

Pensai, e questo chi diavolo è? Le lessi tutte allora, le poesie, esclamando fra me e me, di poesia in poesia, caspita! Finalmente un Carver, qualcosa di vero. Era ora!

Più incuriosito che mai, aprii la busta allegata al pacchetto, con la lettera di Emidio. Si chiama così, Emidio Paolucci. Capii solo al quel punto che si trattava dell’ergastolano di cui mi aveva parlato il buon Pakarov.

Se non sei un parente devi seguire un semplice protocollo. Mi chiamò la questura di Venezia. Ci andai di corsa. Gli uffici erano quelli di Campo San Lorenzo, in un antico palazzo del Seicento, a due passi da casa mia. È forse la più bella stazione di Polizia che ci sia in Italia. Soffitti altissimi, travi lignee a vista, un enorme tavolo antico nel bel mezzo della sala d’entrata, e un cartello, risalente forse agli anni Settanta, con una scritta che sembra un contratto sociale: «In un paese democratico, la Polizia è al servizio dei cittadini».

L’ufficiale che mi accolse era giovane e affabile, pugliese credo. Mi chiese perché volessi conoscere il detenuto. Gli dissi che era il nostro Carver, ma mi sembrò non capire. Avevo con me il suo libro. Lo estrassi dalla tasca della giacca, lo aprii e gli lessi una poesia, a caso. Il giovane ufficiale sbarrò gli occhi e mi guardò in un modo profondo, improvvisamente amicale. Non che prima mi fosse ostile, incuriosito piuttosto, fors’anche per il mio aspetto, vesto sempre e interamente di nero, come un becchino. E per la prima volta in vita mia, vidi un poliziotto piangere. Mi sovvenne un verso majakovskijano, quel «credo nella grandezza del cuore umano» che mi accompagna, come una preghiera accompagna un prete, e mi dà fiducia e coraggio.

L'attesa

Arrivammo, io e Luca, alle otto e mezza, puntualissimi. Non ero mai entrato in un carcere.

La sala d’aspetto era affollata di parenti, donne e bambini. Sussurrai a Luca: la vedi questa ragazza vicino a noi? Guarda quanto è bella.

Era piccolina, non ancora trentenne. Aveva un aspetto un po’ mascolino, con delle sopracciglia folte e nerissime. Gli occhi scuri e un po’ strabici, strabismo di Venere, meravigliosi. Sembrava fremere. Non vedeva l’ora di entrare in sala colloqui. Con lei c’era una bambina lentigginosa e dai capelli rossi, importuna e irrequieta, un flagello di bambina, avrei scoperto di lì a poco. Altro che iperattiva, era un vulcano. Vestivano entrambe con capi desueti, anni Ottanta, probabilmente recuperati alla Caritas, ma erano pulite, profumate, dignitose come solo i romanì - si chiamano così, non zingari - nelle occasioni speciali, sanno essere. La bimba ogni tanto mi guardava negli occhi, sfrontata e sorridente.

Sentivo già il mio cuore scricchiolare. Di lì a poco, si sarebbe spezzato in due.

Piano piano la sala d’attesa si svuota per confluire in quella dei colloqui.

Chiamano anche noi, ci invitano a liberare le tasche e porre tutto, portafogli, soldi sparsi, telefonini e sigarette, in una cassetta che avremmo chiuso a chiave. Passiamo per il metal detector e una breve perquisizione.

Luca era nervoso e guardingo. In carcere c’era già stato, ma per motivi molto diversi dal far visita a un detenuto. E comunque è vero ciò che mi disse: avevamo fatto tardi la sera prima, bevuto troppo, dormito troppo poco, avevamo l’aspetto sciupato di due poco di buono. Io trovavo la cosa simpatica, Luca neanche un po’.

Un poliziotto cortesemente ci accompagna a un tavolo che sembra un banco di scuola, quello di tanti anni fa, soltanto un po’ più grande. Le sedie sono gialle e rosse. Gialle per gli ospiti, rosse per i detenuti. Non si sa mai, metti che un detenuto, approfittandosi di una momentanea distrazione del personale, riesca a confondersi con i parenti, le mogli, i bambini, magari tenendone uno per mano… L’idea mi divertiva.

Aspettiamo qualche minuto, Emidio è un po’ in ritardo. Nel frattempo, la giovane androgina con la piccola monella si siede proprio di fianco a noi. Le sorridiamo, mentre si tormenta le mani, mangiandosi le unghie, impaziente e un po’ sospettosa nei nostri confronti. Allora mi chiedo, chissà che uomo arriverà al suo tavolo fra poco. Sarà giovane, o vecchio? Bello, o brutto? Affascinante, o inquietante. Di brutte facce intorno ce n’è parecchie. Però… Santo cielo, ci sono le mogli e i figli, una miriade di parenti, bambini fanciulli e adolescenti. Mamma mia, che casino! E quanta gioia, quanto affetto, quanta spensieratezza. È incredibile. Rifletto e penso: pazzesco, qui dentro c’è così tanto amore, che ti sembra quasi di… respirarlo. Mi sento a mio agio.

Emidio Paolucci, foto da Facebook

Faccia a faccia

Eccolo, è arrivato Emidio. Sorridente. Sembra un Robert De Niro. Caspita se gli assomiglia. Porta con sé una bottiglia di Coca Cola e un termos pieno di caffè appena fatto, bicchieri di plastica e salviette. Ci alziamo, ci stringiamo le mani, ci sorridiamo e ci presentiamo. Io e Luca sembravamo usciti da una rissa, esausti e inermi, lui invece era vivace, lucido, volitivo, pronto. Che smacco.

Credevo che avremmo incontrato un uomo triste e rassegnato come le sue poesie (non lo sono affatto, soltanto a una prima lettura) e invece era euforico e frizzante. Per niente triste, ma sicuro di se, affabile, eloquente nel verbo, un verbo ch’era un fiume in piena. Aveva una voglia imperiosa di conoscerci, ma soprattutto di raccontarsi.

Perché sono qui? Per omicidio, con tutte le aggravanti.

In Italia l’omicidio volontario è punito con un massimo di ventun anni, ma con le aggravanti si arriva anche a trenta.

Non sono stato io, non era che un ragazzo, non gli avrei torto un capello. Sono stato un recidivo rapinatore a mano armata, uffici postali, banche, tutto quello che vuoi, sono stato in prigione in mezza Europa, ma quel ragazzo non l’ho ucciso io.

Decidemmo di credergli, ma dentro di noi, in verità, non ce ne fregava niente. Avevamo di fronte il sorriso di un uomo come noi. Un sorriso fiducioso, che non chiedeva assoluzioni, ma soltanto un briciolo di complicità, un pizzico d’amore, un frammento d’amicizia.

In prigione da vent’anni, aveva scelto di non lasciarsi andare, di non cedere al desiderio di farla finita, come accade anche ai secondini, tanto è dura la galera, e ci osservava con un certo repentino e sorprendente affetto. Pensai che il mondo, tutto sommato, non è poi così male.

Niente baci

Nel frattempo arriva il compagno della nostra vicina.

Santiddio… Altro che inquietante. Sembrava Frankenstein. Uno di quei figuri che non ti augureresti mai di incontrare in un vicolo.

Era enorme, un vero marcantonio. Un aspetto così lombrosianamente delinquenziale non l’avrei nemmeno sospettato fino a quel momento. Emidio mi s’approssima all’orecchio e mi consiglia di non fissarli. Non me n’ero accorto, ma effettivamente li stavo fissando. In realtà mi sorprendeva che non si baciassero.

Scopro così che in carcere marito e moglie non possono abbracciarsi e baciarsi, possono solo accarezzarsi vicendevolmente gli avambracci, sotto l’occhio vigile dei secondini.

La bambina mi assale alle spalle e incomincia a tirarmi i capelli, mi grida nelle orecchie, mi strapazza il viso… La mamma non interviene, non dice un bel niente e la lascia fare. Frankenstein se ne infischia bellamente. Romeo e Giulietta, in questa mezz’ora che gli resta, hanno altro a cui pensare. Io non mi faccio problemi, perché è adorabile, ed è scatenata, e io, da buon rockettaro, amo gli scatenati, gli imprevedibili, gli imprevisti. E poi… quelle lentiggini, quel sorriso irrefrenabile, quella vitalità. Incoercibile e stupenda.

Dovete sapere, ragazzi, che qui in galera siamo tutti ossessionati dall’eros. È una costante. Se al posto vostro oggi ci fosse la mia ragazza, solo accarezzandole le mani mi verrebbe un’erezione di quelle… Ce la ridiamo. Emidio possiede il senso dell’ironia, il sale della vita. E che vita sia.

Di fianco a noi la nostra amica guarda il suo Frankenstein, senza dire nulla. Lo guarda, gli occhi neri spalancati, un sorriso d’amore e voglia di fare all’amore, lo guarda e gli accarezza le mani, lo guarda come se volesse il suo sguardo entrargli dentro, per non uscirne più. Lo ammira, come ammirasse una luna piena, nitida, nuda, in attesa.

Mi accorgo che sto piangendo. Me ne vergogno subito, mi ritraggo, cerco un fazzoletto. Emidio mi porge una salvietta. Con un ghigno mi dice… Però, vedo che sei empatico. Meno male! Con tutti questi schizoidi mascalzoni qua intorno, una volta tanto conoscere un empatico non fa male, anzi. Benvenuto, Pierpaolo.

Quella parola, benvenuto, associata al mio nome, Pierpaolo, mi fece un gran bene dentro. Mi sentii all’improvviso innamorato dell’orda umana, tutta intera.

Un’ora in più

Dobbiamo sloggiare. Emidio chiede a una guardia un’ora in più.

La guardia s’allontana, prende un telefono di servizio, torna e ci dice che sì, possiamo restare.

Monella e mamma si dileguano verso l’uscita, e quello spazio disperato di Via San Donato; papà verso l’entrata del tunnel del rammarico. Alla fine, un cenno con la mano e via, tutto come prima, come se niente fosse.

Ma questo personaggio, il signor Frankenstein, chi diavolo è?

Non è che uno spacciatore, come quasi tutti qui dentro.

Lo vedi quel ragazzo, all’angolo in fondo, con la madre? Beh, è il figlio di un tipo che è stato qui per una decina di anni. Si sono dati il cambio. Vengono quasi tutti dal Rancitelli. Se nasci lì sei spacciato per sempre.

Il Rancitelli è un quartiere di Pescara, confinante proprio con quello di San Donato. Un postaccio che te lo raccomando, uno di quegli scempi urbanistici degli anni sessanta, fatto di speculazione edilizia, dimenticato da Dio e dagli uomini, e oggi infestato dalla criminalità delle droghe, tutte, eroina per i poveracci, cocaina per la borghesia, cannabis e metanfetamine per la movida.

C’è il 70 per cento di recidiva nelle carceri italiane. E il 70 per cento di chi finisce dentro è stato colto in flagranza, processo per direttissima e chi s’è visto s’è visto. I colletti bianchi in galera non ci vanno quasi mai.

Psicofarmaci a pioggia

E poi? Psicofarmaci a pioggia per tutti, così se ne stanno buoni. C’è gente che non parla per settimane, li chiamiamo i “canestri”. Ingoiano le pillole per poi rannicchiarsi in branda, così, per tutto il giorno. Te li vedi quando escono? Incapaci di relazionarsi con il mondo? Instupiditi e dipendenti, chiedere aiuto a chi? Quale reinserimento sociale?

Le puoi leggere nei libri queste cose. Sentirtele raccontare da chi le esperisce in prima persona è tutta un’altra storia.

E così l’ideologia farmacologica della pratica psichiatrica si allea con quella della stigmatizzazione carceraria, incurante della cruciale questione della iatrogenesi del disturbo mentale. Tombola!

Con quel 70 per cento di recidiva vien da chiedersi a cosa serva il carcere. Non sarebbero più logici e convenienti, sì, convenienti, percorsi di pena alternativi? Il carcere costa un sacco di soldi, 140 euro a detenuto, 8 milioni al giorno, 3 miliardi all’anno. A che scopo, se poi restituisce alla società degli attaccabrighe più incalliti di prima?

La cosa che più fa male qui dentro, ci spiega Emidio, è la mancanza di spazio. Questa cosa ti fa impazzire. Nessuna privatezza. E poi, guardatevi intorno… qui ci stanno solo sfigati, arresi e rassegnati, naufraghi in un mare di lacrime.

Quant’è vero, amico mio. Esclusi, emarginati, sporchi cristi crocefissi alle sbarre, perché poveri, perché figli dei poveri, direbbe Pasolini.

La poesia, forse l’ultima forma di quella che i filosofi chiamano parresia, l’arte socratica di dire il vero di fronte al tiranno, ci rende testimoni oculari della realtà, costi quel che costi: ci disvela il cuore delle cose e delle circostanze, la durezza e il dolore dell’esistenza. Pasolini, poeta immenso, fu forse il più paradigmatico parresiaste del Novecento italiano. La pagò cara la sua sete di verità.

Il poeta non bara mai, gioca solo a carte scoperte, può soltanto dire la verità e farsi, appunto, nel qui e ora, parresia.

Quando leggo le poesie di Emidio mi sembra di essere lì con lui, dov’ero quel giorno, dove il tempo inesorabile non passa mai, fra i derubricati dall’agenda della vita.

Ci scriviamo da anni ormai. In Emidio ho scoperto il migliore dei confidenti, un amico a cui posso raccontare i tormenti più interiori, le mie paure e le mie speranze, il mio sconforto e le mie gioie.

Che stranezza… Ho trovato in un carcerato proprio colui che cercavo, qualcuno che mi aiuti, finalmente, a sopportare il mondo. Ti ho scovato Emidio, fratello premuroso.

Giustizia e vendetta

C’è un tema antico, costante e irrisolto, che ci riguarda tutti, e che negli ultimi anni, grazie alla crescita esponenziale delle destre, vediamo riemerge con vigore: la falsa coscienza dell’ideologia carceraria. “Gettiamo via le chiavi”, “che marciscano in galera”. È la vendetta che, come un coltello in un angolo buio di una buia periferia dell’anima, attende la giustizia, vittima prediletta, per derubarla, ferirla, ucciderla.

Ce ne hanno dato un esempio folgorante Salvini e Bonafede nel caso dell’estradizione di Cesare Battisti. Ve li ricordate? Un siparietto a testa, in aeroporto, con tanto di filmini social, per calpestare la dignità di un uomo ormai definitivamente sconfitto, e trasformarlo in un pornografico trofeo. Niente di meno necessario. Niente di più ripugnante.

È giunto il momento, l’ennesimo, di chiederci se il personale politico del paese sia all’altezza del suo compito storico, o se non sia, invece e come al solito, schiavo delle convenienze giornaliere, del minutaggio elettorale, del nulla di questo sempiterno e precipitoso presente.

Conoscere Emidio mi ha fatto capire qualcosa di fondamentale. Il carcere mi riguarda. Non voglio, non posso voltare lo sguardo dall’altra parte. Sono nato nel 1968 da famiglia sottoproletaria, ho vissuto fanciullezza e adolescenza nel bel mezzo di innumerevoli scampati pericoli, in una società in pieno mutamento. Il destino volle ch’io fossi libero di scegliere da che parte andare, di studiare Benjamin e Foucault, di innamorarmi della musica, di calcare palcoscenici indimenticabili, di intraprendere un percorso umano e artistico in cui, nel bene e nel male, mi avventuro ancora, e penso che fra questi miserabili perdenti potrei esserci anch’io. Mi è andata bene.

Lontani e nascosti, non mi sono estranei, ma parenti, perché nelle mie vene scorre lo stesso sangue dell’immensa famiglia umana.

In un paese democratico la Polizia è al servizio dei cittadini. Anche la giustizia e la pena, e quindi il carcere, devono esserlo. Non per bontà d’animo o spirito cristiano - che siano benedetti - ma per garantire dignità a tutti nella democrazia, che è quanto di più prezioso ancora possediamo. Non è mai scontata, la democrazia. È un processo in atto, è ogni giorno un obiettivo da raggiungere. La democrazia è il domani.

«La serata l'ho quasi finita / … / Brahms mi tiene compagnia / non si direbbe per una canaglia come me / la sua musica mi rende serenamente malinconico / stasera chiudo come dico io / stasera non mi faccio fregare / Brahms fa tacere ogni cosa / crimini e delizie / amore e indifferenza / tutto ci uccide / tutto / nessuno ci salverà» (Emidio Paolucci).

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