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Il testo si presenta come un romanzo di formazione, una quarantenne che è rimasta adolescente per vent’anni e ora raggiunge l’equilibrio grazie alla figlia che ha avuto con un intervento (capriccioso ma fatale) di procreazione assistita.
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Una figlia senza padre, perché lei di Padre ne ha avuto troppo. Il grembo paterno è un libro non esente da difetti, ma il passo è stato fatto.
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Dopo aver costeggiato una verità ovvia (i nonni danno ai nipoti ciò che non han saputo dare ai figli), il libro si chiude con un lieto fine a metà: la speranza di poter crescere senza mai diventare adulta, pregando la figlia di insegnarle come si fa a nutrire invece che ad aver fame.
Il coraggio psicologico non è mai mancato a Chiara Gamberale, fin dal suo primo precocissimo romanzo; già a ventidue anni lei si sapeva segnata da un handicap e da un dono, e provava a usare il secondo per mascherare il primo.
L’handicap era una spropositata fame di eccezionalità, compenso a un’oscura originaria mancanza d’amore; di tutto volerne sempre ancora e ancora, quindi disperata coazione a ripetere e tipica bulimia, non solo alimentare ed erotica ma intellettuale ed esistenziale.
Sfida borderline al desiderio di morte ma anche curiosità per le forme varie della vita, quella strana ma forse soprattutto quella normale e invidiata (le luci nelle case degli altri).
Patologia mitigata dal dono innato di una scrittura facile e leggera, che riusciva a far percepire come gioco e avventura anche l’inferno; residui d’infanzia, non di rado leziosità e bamboleggiamenti per tradurre il disadattamento in intensità – quando i lettori (più spesso le lettrici) le dicevano alle presentazioni «Chiara, come vorrei che mia figlia ti somigliasse», io che le voglio bene pensavo «speriamo di no».
Autofiction
In quest’ultimo Il grembo paterno (Feltrinelli) la Gamberale gioca a rimpiattino con la propria autobiografia: la protagonista Adele è una evidente alter ego, il padre Rocco è una versione rustica di Vito Gamberale, noto dirigente di aziende pubbliche e private, la figlia narrativa si chiama Frida ma tra i nomi proposti e poi caduti c’è anche quello vero della sua figlia empirica; i nomi dei compagni via via succedutisi sono quasi una sciarada per chi conosce personalmente l’autrice.
Anche negli altri libri flirtava con l’autofiction, ma stavolta si ha l’impressione che sia uscita dalla propria comfort zone, che per lei è quella del caos poetico e nevrotico, per tentare una vera impresa terapeutica (non per niente la psicanalista di Adele si chiama Della Penna).
Contrariamente a quel che adesso fanno in molti, cioè affidare un messaggio curativo alla letteratura squadernando un catalogo di buoni sentimenti e buone azioni, qui la Gamberale segue la strada più difficile: far accadere nella scrittura ciò che di solito accade in analisi.
C’è una scena soprattutto, forse la scena-chiave del libro, che appena l’ho letta mi è parsa un vero e proprio transfert. Adele è entrata in una casa di cura per disturbi alimentari, ma da lì è nato un reality show molto seguito in cui le ragazze malate raccontano di sé; a sorpresa, la psicanalista invita in trasmissione il padre Rocco e gli chiede una cosa per lui quasi impossibile, spiattellare in pubblico un proprio rapporto extraconiugale; la figlia insorge, grida basta, ma Rocco è abituato a obbedire a coloro che gli paiono avere autorità e per di più avere ragione (se la dottoressa ti sta aiutando, allora io faccio quello che c’è da fare); ammette la propria fame per salvare la figlia dalla sua; alla fine della scena la figlia vomita ma è un vomito “buono”, non quello cattivo della bulimia.
La Gamberale questa volta ha preso il toro per le corna: l’ombra del padre, anzi del Padre, di cui a un certo punto dice «dunque io… ero lui» – un amore al di là perfino dell’incesto immaginario, un legame mistico unitivo che ricorda l’immortale «Io sono Heathcliff» di Catherine in Cime tempestose.
Se facendosi l’amante il padre aveva tradito più la figlia che la moglie, perché Adele aveva sentito di non essere più l’unica, ora capisce che «era lui, l’unico».
L’enigmatica copertina del libro (una ragazza che presenta al lettore una confezione di uova) non ha altro senso che «io non nasco da un utero» – si nega la madre perché ci si pretende nati dalla «mente incinta del padre», come Minerva dalla testa di Giove. Il padre come Dio e gli altri uomini come pallidi surrogati, o esseri in fuga.
Coraggio stilistico
Per un contenuto così impegnativo era necessario un altro tipo di coraggio, e per fortuna la Gamberale l’ha trovato: il coraggio stilistico. Per la prima volta, se non sbaglio, ha lasciato entrare nella sua scrittura leggera certe realistiche inflessioni dialettali (del centro-sud, chi la conosce direbbe molisane); la lingua del padre, ma anche dei personaggi minori e perfino di Adele.
Rocco ne esce come un personaggio perfettamente tridimensionale: ignorante ma intelligentissimo, abituato a «lavorare come un somaro» ma dotato di quella «misteriosa eleganza da cui si può mascherare l’abitudine al sacrificio»; rozzo e attaccato alla roba come un don Gesualdo, politicamente scorretto, violento per troppo amore, col mito dei «figli da far studiare» eppure simile alla figlia: anche lui non si contenta mai, anche lui cerca il piacere.
Gli altri personaggi, si potrebbe dire, sono il coro e il contorno: la madre che sfoga la frustrazione nei lavori casalinghi, il pediatra di cui Adele si innamora ma fin da subito il lettore capisce che tratterà anche lei da bambina come la piccola Frida.
Pretendere il primo amore adulto da un pediatra appartiene alle astuzie della Gamberale narratrice; così come l’aver ambientato la vicenda (flashback a parte) esattamente al marzo 2020 – la guarigione privata che coincide con l’inizio della malattia pubblica, la liberazione in tempo di lockdown; ma insieme la possibilità di raccontare il Covid da un angolo inedito, dall’interno di una psiche.
L’abilità artigianale dell’autrice la conoscevamo già, ma qui si è ancora raffinata: la ritroviamo nella agilità da prestigiatore con cui va avanti e indietro nel tempo; nella sicurezza con cui alterna, senza che il lettore provi il minimo sconcerto, la prima e la terza persona; nel raccontare per allusioni sapienti e pop, come quando il dolore della madre tradita si manifesta nel dare della “puttana” alla Du Barry mentre guarda una puntata di Lady Oscar.
Romanzo di formazione
Il testo si presenta come un romanzo di formazione, una quarantenne che è rimasta adolescente per vent’anni e ora raggiunge l’equilibrio grazie alla figlia che ha avuto con un intervento (capriccioso ma fatale) di procreazione assistita. Una figlia senza padre, perché lei di Padre ne ha avuto troppo.
Il romanzo è tramato di simmetrie simboliche, il che lo stacca dal neo-verismo caratteristico di molte scrittrici contemporanee, sotto l’egida di Morante e Deledda e Serao (anche se va in quella direzione l’incipit dickensiano: il novenne Rocco va a chiedere del latte per il fratellino appena nato perché la madre ha il seno secco, ma il bottegaio non glielo dà a causa dei debiti che la famiglia ha accumulato, e il fratellino muore).
Il grembo paterno è un libro non esente da difetti, ma il passo è stato fatto: se si trattasse di un videogioco, si direbbe il salto a un livello superiore. Restano molte scorie, ma la Gamberale ha solo quarantaquattro anni e la scelta della serietà non sembra revocabile; quando scrive «la risposta ha sempre a che fare con un bambino che dorme», ha capito che la letteratura non perdona.
Qualche leziosità permane, con l’assoluto si sente che non è ancora a proprio agio: linguisticamente, per designarlo, oscilla tra espressioni corrive (“bussare al sangue”) e troppo altolocate (“indiamento”, da Dante e Leopardi). Forse non ha fatto i conti definitivi nemmeno con la rassegnazione, se il cedere le armi di fronte alla figlia che ormai ha preso il primo posto nel cuore di Rocco risente ancora di orgoglio narcisistico (la donna che poteva soppiantarmi gliela potevo fabbricare solo io).
Non sono del tutto scomparsi certi ritornelli piacioni («giorno dopo giorno dopo giorno»), né il bamboleggiare di diminutivi e soprannomi, né una trasmissione radiofonica intitolata L’adelescenza.
Dopo aver costeggiato una verità ovvia (i nonni danno ai nipoti ciò che non han saputo dare ai figli), il libro si chiude con un lieto fine a metà: la speranza di poter crescere senza mai diventare adulta, pregando la figlia di insegnarle come si fa a nutrire invece che ad aver fame.
E ad accontentarsi di quello strano ircocervo che sarà una madrefiglia, loro due sole per sempre, con un Padre che è diventato un nonno. Ma ormai la porta è aperta: l’ultimo rimosso della Gamberale, toccato il fondo di quello psicologico, pare il non-detto economico: il disagio di essere figlia di un uomo ricco e importante e ricca essa stessa grazie al suo lavoro di scrittrice, ma ricca con la mentalità da povera.
Chissà che la sua nuova stagione non ci riservi in futuro un bel romanzo in cui la spina dorsale narrativa siano i soldi, come in Balzac.
Chiara Gamberale è autrice del libro Il grembo paterno, edito da Feltrinelli
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