La particolarità della Ryder Cup di golf che l’Italia ospita per la prima volta nella storia è quella di essere uno dei rarissimi eventi sportivi in cui vediamo scendere in campo una squadra che, non solo fa esplicito riferimento all’Europa, ma addirittura adotta bandiera, inno e colori dell’Unione europea. Questi simboli peraltro vengono regolarmente riproposti con entusiasmo dal pubblico che in queste occasioni si fa molto più chiassoso e carnevalesco, distanziandosi dalla tradizionale austerità e compostezza dei tornei individuali.

La storia

È la storia di questa competizione a rappresentare una sorta di inno in favore della costruzione politica europea. Quando venne creata poco meno di un secolo fa, la Ryder Cup rispondeva a logiche culturali e geopolitiche profondamente diverse rispetto a quelle odierne. All’epoca, il golf era uno sport elitario radicato nella cultura delle aristocrazie e delle élite industriali e commerciali anglosassoni.

Di conseguenza nel 1927 l’idea di promuovere una sfida sportiva fra Regno Unito e Stati Uniti, un modello peraltro già sperimentato con successo dalla Coppa America di vela, rafforzava lo spazio geopolitico dell’“Anglo-America” e i rapporti di rivalità e amicizia fra Washington e Londra. Sebbene le prime edizioni fossero state contese e incerte con due vittorie a testa, ben presto anche in campo sportivo emerse quello squilibrio di forze in favore degli Stati Uniti caratterizzante questa “special relationship”. Dal 1935 cominciò infatti un periodo di dominio assoluto del team Usa, interrotto solamente nell’edizione del 1957 e dal pareggio del 1969, che si protrasse fino al 1985 e finì per far perdere interesse alla competizione.

Nessun effetto concreto scaturì il tentativo del 1973 di affiancare ai britannici i golfisti irlandesi. Dall’edizione del 1979, invece, l’egemonia degli Stati Uniti cominciò a vacillare a seguito della decisione di trasformare la squadra britannico-irlandese in un team europeo. Sebbene le motivazioni fossero di natura prevalentemente economico-sportive, ad influenzare questa decisione concorse anche il nuovo clima politico che aveva portato il 1° gennaio 1973 l’ingresso del Regno Unito (assieme a Irlanda e Danimarca) nelle Comunità europee.

Il contributo di giocatori continentali come lo spagnolo Severiano Ballesteros o l’italiano Costantino Rocca, permise non solo di riequilibrare i rapporti di forza ma addirittura di ribaltarli. Dal 1979 ad oggi la squadra europea a fronte di nove sconfitte e un pareggio, ha conquistato infatti ben 11 vittorie, dimostrando come, almeno in campo sportivo, un’Europa unita sia in grado di mettere in discussione il primato statunitense.

Al di là di queste forzature simboliche in cui il ruolo dello sport non può andare oltre quello metaforico, non c’è però dubbio che l’esistenza del Team Europe favorisca fra i suoi tifosi l’emergere di pulsioni europeiste. Questi sentimenti, data la natura effimera della passione sportiva, non devono assolutamente essere sopravvalutati, tuttavia non possono nemmeno essere completamente negati.

La Brexit, banalmente, non è certo stata impedita dal fatto che a partire dagli anni Ottanta fra i tifosi britannici della Ryder Cup l’anti-americanismo avesse trionfato sull’euro-scetticismo. Allo stesso tempo però l’edizione parigina del 2018 si è trasformata anche in un palcoscenico funzionale a dimostrare la resistenza di un sentimento filo-europeo e anti-Brexit nella popolazione britannica, o quantomeno fra i suoi tifosi del golf.

Piccola ondata di europeismo

In un mare di sovranismo, ogni due anni la Ryder Cup e il Team Europe si fanno quasi inconsciamente portatori di una piccola ondata di europeismo. Tutto ciò anche se, a ben vedere, al di là degli aspetti simbolici, non esiste un reale legame con l’Ue. L’Europa che i golfisti rappresentano, infatti, non è quella politica a 27 paesi e con sede a Bruxelles, bensì quella sportiva in cui trovano spazio sia i fuoriusciti britannici come McIllroy e MacIntyre, ma anche norvegesi come Hovland. Eppure, proprio la Ryder Cup potrebbe offrire un prezioso assist per coloro che auspicano che fatta l’Europa si facciano gli europei.

Al di là della guerra, soluzione evidentemente mai auspicabile, pochi altri fenomeni si sono dimostrati più efficaci dello sport nella costruzione e nel rafforzamento delle identità nazionali. Le competizioni sportive, infatti, permettono una più facile e immediata comprensione del “noi” e dell’“altro”, rafforzano l’identificazione fra atleti e nazione e contribuiscono – tanto in senso positivo quanto negativo – alla stereotipizzazione dell’“altro”, generando un numero infinito di occasioni in cui le nazioni sono impegnate in qualcosa di concreto e visibile.

Uno spazio per l’Europa

Negli ultimi anni la Commissione europea ha riscoperto un certo attivismo in materia sportiva che però, pur toccando diverse tematiche fondamentali come il contrasto al doping e al match fixing e la promozione dello sport di base, ha continuato a ignorare il potenziale dello sport d’élite per promuovere un’identità europea. E allora perché non approfittare dell’appuntamento con la Ryder Cup per rilanciare la proposta avanzata fin dal 2009 dal professor Fulvio Cammarano in occasione del convegno “Se lo sport fa l’Europa”, in cui si invitavano i mondi delle istituzioni sportive e politiche a dialogare affinché venissero costituite squadre dell’Unione Europea, che senza andare a sostituirsi alle nazionali, creassero occasioni per far germogliare fra i suoi cittadini, sempre più euroscettici, un senso di appartenenza europee.

La Ryder Cup nel golf, ma anche la Laver Cup nel tennis, hanno dimostrato che nell’attuale sistema sportivo c’è lo spazio per creare brevi competizioni in cui una squadra chiamata Europa scende in campo. Per farlo però serve soprattutto la volontà politica che finora è sempre mancata. Certo, nemmeno ammirare i più grandi campioni continentali con la bandiera europea cucita sul petto che cantano l’Inno alla Gioia in discipline più popolari del golf potrà essere sufficiente a costruire un’identità condivisa; tuttavia, almeno per qualche ora, popolazioni che per secoli si sono fatte la guerra finirebbero per sentirsi parte della stessa comunità imprimendo, almeno dal punto di vista simbolico, un’accelerazione al lungo e complesso processo d’integrazione.

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