Al Kunst di Merano una mostra esplora la visione speculativa e multidimensionale del “vecchio continente” per mettere in discussione i codici dominanti
Sulle Alpi rimane ancora oggi una profonda cicatrice che testimonia lo scontro geologico tra il continente europeo e quello africano. È la linea insubrica, composta da una serie di faglie visibili anche dai satelliti, che da Torino passa per il Canavese, la Valtellina, piega a nord al Passo del Tonale, per arrivare fino a Merano e raggiungere poi il Bacino Pannonico.
Questa frattura, risalente a milioni di anni fa, è il risultato dello scontro tra la placca tettonica africana e quella europea, che ha portato all’innalzamento delle Alpi e all’estinzione dell’antico Oceano Tetide che un tempo le separava. Quasi come una sutura sulla pelle del continente, la linea insubrica diventa un simbolo di quell’incontro/scontro tra mondi che ha plasmato l’identità stessa dell’Europa.
È proprio a partire da questa linea geografica e geologica che nasce la mostra “The Invention of Europe. A tricontinental narrative”, curata da Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi per il Kunst Meran Merano Arte. Chiamando a raccolta artisti africani e afrodiscendenti, la mostra si propone di esplorare l’immagine speculativa di questa frattura alpina, per aprire nuove prospettive sulla nfrattatura composita e plurale dell’identità europea.
Mettere in discussione i codici dominanti
Tra i vari artisti in mostra Liliana Angulo Cortés e Kapwani Kiwaga mettono in discussione i codici dominanti di assoggettamento.
L’artista franco-canadese Kiwanga che rappresenta anche il Padiglione Canada alla 60ma Biennale di Venezia, con la serie Flowers for Africa reinterpreta le composizioni floreali presenti in occasione delle cerimonie di indipendenza dei 54 paesi africani, identificando le diverse specie e ricercandone la provenienza per evidenziare i legami con i successivi sviluppi commerciali.
L’opera di Liliana Angulo Cortés, Un caso de reparación, indaga la spedizione botanica, promossa dalla corona ispanica, guidata dal sacerdote e medico José Celestino Mutis nella cosiddetta Nueva Granada, l’odierna Colombia, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.
Attraverso questo lavoro che permise di catalogare 20.000 specie vegetali e 7000 animali, l’artista afrodiscendente colombiana riporta alla luce una storia ancora poco conosciuta che va oltre i confini dell’America Latina. Emerge infatti il ruolo cruciale svolto dagli elementi botanici nella complessa rete di sfruttamento coloniale, che includeva anche l’acquisto e l’asservimento di persone di origine africana. Mutis, a cui è dedicato anche un parco nel centro di Bogotà, si è avvalso di questa manodopera per portare avanti le sue attività di raccolta e catalogazione botanica.
Per il lavoro, Mutis preparò una serie di giovani, tra cui molti creoli, che lo aiutarono lavorando come botanici, come erboristi o come illustratori, e altri, come commissari o viaggiatori che andavano in regioni remote dal vicereame per raccogliere campioni. L’artista ha recuperato nomi e storie per onorare il loro contributo, dato che anche questi fatti favorirono i moti che portarono all’indipendenza colombiana.
Il caffè e le altre radici dimenticate
Lungi dall’essere un’entità monolitica e omogenea, l’Europa si rivela piuttosto come un intreccio dinamico di relazioni, influenze e scambi culturali che travalicano i confini geografici e politici. La mostra ci invita a guardarla non solo dalla prospettiva occidentale, ma a considerarla anche alla luce delle sue connessioni con l’Africa e il resto del mondo.
Mentre per molti di noi l’immagine del caffè evoca immediatamente l’Italia e la sua tradizione, Francis Offman, ci invita ad andare oltre le nostre convinzioni. Nelle sue opere, il caffè diventa un punto di partenza per esplorare le complesse rotte imperialiste e i processi di sfruttamento delle risorse che hanno caratterizzato la costruzione dell’identità europea.
Le mappe e i diagrammi che Offman realizza nella sua serie Untitled ricostruiscono infatti i legami e le relazioni economiche, sociali e culturali legate al commercio del caffè. Emergono così le storie dimenticate di sfruttamento coloniale, di migrazioni forzate e di appropriazione di conoscenze e risorse provenienti dall’Africa e da altre parti del mondo. Quel filo rotto che ricorre nelle opere dell’artista diventa metafora di una connessione spezzata, di una Storia della quale l’Europa deve ancora fare i conti.
Allo stesso tempo, Offman attinge anche a ricordi personali legati al suo passato in Ruanda, restituendo al pubblico una dimensione intima e umana di questa complessa eredità coloniale. Attraverso il linguaggio dell’arte, l’artista ci invita così a riflettere su come l’immagine della stessa Europa sia stata costruita su relazioni di potere e sfruttamento, spesso occultate dalla narrazione ufficiale.
Ripensando criticamente la storia, gli artisti della mostra affrontano episodi spesso trascurati del passato coloniale.
Come nell’opera Sight Unseen con cui l’artista Alessandra Ferrini esplora il caso di Omar Al-Mukhtar, il leader della resistenza libica all’occupazione italiana ucciso dai fascisti. Forse qualcuno lo ricorda perché Gheddafi nella storica visita in Italia si presentò con la sua foto appesa al collo.
Analogamente con la video installazione Trab’ssahl, Abdessamad El Montassir racconta il Sahara occidentale, a lungo considerato nell’immaginario europeo solo come territorio da conquistare.
Il tè degli italiani
Una riflessione che si ricongiunge alle installazioni di Binta Diaw.
Per la mostra l’artista italo-senegalese ha lavorato con tessuti pregiati utilizzati per matrimoni e abiti cerimoniali africani, considerati quindi tradizionali, ma in realtà prodotti in Austria e che lei ha tinto con il carcadè, mettendo così in luce i legami storici complessi tra i due continenti. Dopo le sanzioni economiche della guerra d’Etiopia il tè era molto costoso, così il regime fascista, nel quadro della sua politica autarchica, promosse il carcadè come sostituto, ribattezzandolo il “tè degli italiani".
«La mia doppia nazionalità mi ha permesso di approfondire la questione ancora più, chiaramente, il carcadé è una bevanda tipica africana – Bissap in Senegal – ma è anche stato anche il tè degli italiani. Volevo mettere in discussione l’aspetto di violenza, esplicitato anche dal colore rosso come il sangue».
L’interesse nell’affrontare i rapporti coloniali tra Italia e Africa è un argomento che l’artista ha sviluppato in diversi lavori precedenti.
«Il dibattito sul colonialismo italiano è attuale proprio perché se ne parla, grazie a persone come i curatori della mostra e ad artisti che lo affrontano in diverse occasioni. È un lavoro profondo, che deve essere sia collettivo che individuale».
Per questo Diaw ha creato un percorso con dei “pozzi di carcadé” con la bevanda all’interno per “specchiarsi”.
«Credo che gli italiani dovrebbero intraprendere un vero esame di coscienza, rimettendo in discussione la propria storia e il ruolo dei loro antenati. Esistono già spazi di discussione anticoloniale, ma ce ne dovrebbero essere di più, che si concentrino su un lavoro più concreto e incisivo, soprattutto attraverso l’educazione. È necessario un impegno diffuso per rileggere criticamente il passato coloniale italiano e le sue eredità. Solo così possiamo avviare un reale processo di consapevolezza e riparazione collettiva».
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