Poche sono state lette, capite, hanno volto e date di nascita sui libri scolastici. Le altre, una massa informe, una fangosa sparizione, sguazzano nella dimenticanza
Giovedì 27 giugno Giulia Caminito sarà ospite della XXV edizione della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, dove leggerà il testo qui anticipato.
Un organismo è longevo quando vive oltre la media, se supera l’esistenza nella norma e si impone nel tempo, a durare più del dovuto, più dell’aspettativa. Le piante longeve sono le sequoie, gli animali longevi sono gli elefanti, le tartarughe, i pappagalli.
Lo Strigops habroptila è uno dei pappagalli che ha più vita, è un uccello terricolo, notturno e che non può volare, ha le piume screziate di giallo e di verde, le penne arruffate, spugnose, se non fosse per il becco potrebbe essere scambiato per una macchia di muschio.
Lo Strigops habroptila vive fino a 60 anni, più della media dei propri simili. Quando ero bambina mio nonno teneva la gabbia dei pappagallini appesa nel garage, erano gialli e pallidi, facevano uova bianchissime e piccole, le schiacciavano accovacciandosi senza cura, distratti, come se covarle per loro fosse impossibile. Mi chiedo se esiste una vita media per la scrittura.
Era troppo giovane Antonia Pozzi quando si tolse la vita a ventisei anni, aveva la stessa età John Keats quando morì per colpa della tubercolosi. Anzianissimi come Manlio Cancogni o Raffale La Capria sono stati gli scrittori, nel mezzo della vita o quasi come Edgar Allan Poe per le strade di Baltimora.
Quando si parla di lettere gli anni vissuti non sembrano contare nella stessa misura, non è infatti la cifra del tempo trascorso sulla terra a segnare la longevità letteraria ma il suo opposto. Non sono i corpi a dover sopravvivere per chi scrive, ma le opere. Eccole, stampate, rilegate, sfogliabili, promesse di gloria e di permanenza.
Confrontarsi con l’oblio più che con la morte è la regola per chi scrive, insoluta resta per tutti la domanda: per quanto mi leggeranno? Per quanti decenni salverò la pelle? E se saranno secoli e se saranno mille anni? Non c’è supposizione in vita che possa risolvere questo dilemma, non c’è segnale di ricchezza o di premio che possa garantire il futuro delle nostre pagine.
È un’angoscia tonda che prende posizione al centro del petto, in alcune notti, le notti degli impostori, del fallimento, del senso di niente. Mentre di giorno ci affaccendiamo in consegne e segnalibri, in interviste e articoli ben fatti, a notte cala su di noi la brina delle domande insolenti. Ci chiediamo se questo incessante affaccendarsi, questo azzeccare i garbugli dell’editoria e della mondanità basterà domani ad assicurarci un posto se non in paradiso, almeno tra i gironi di Dante. In fiducia di un buon inferno letterario, in ottimismo che ci si ricordi di noi, delle nostre storie, delle righe che abbiamo scritto.
Come rane
I libri intanto corrono e scorrono, dentro e fuori dalle librerie, in scaffalature ordinate di costa nelle biblioteche. Noi incessanti spettatori della carta straccia, dei movimenti rapidi con cui viene rimosso il cellophane, con cui si macchiano di polvere le copertine, con cui si torna negli scatoloni, nei magazzini. Rimarremo e per quanto? Rimarrò e per quanto? Certo, lo so. Quello che ci insegna la storia è una drammatica costante: alle scrittrici non è accordata la longevità. Poche, miracolose, sono parte dei discorsi comuni, sono state lette, capite, hanno volto, hanno data di nascita e di morte sui libri per la scuola, per l’università.
Le altre, una massa informe, una fangosa sparizione di gruppo, sguazzano nello stagno della dimenticanza se non per affiorare – capelli bagnati e occhi larghi – nelle notti di luna piena dal pelo dell’acqua. Eccole, queste scrittrici-rane, queste creature anfibie che hanno difficoltà a camminare troppo a lungo sulla terra.
Per loro l’oblio è cosa facile, la longevità una complicata utopia.
A volte, grazie ad altre donne, studiose, ricercatrici, lettrici, editrici, una di loro viene ripescata, con una grande rete a nodi stretti, e tirata fuori dallo stagno, viene ripulita, sistemata a dovere e presentata agli astanti del bosco. Per qualche tempo, breve e intenso, la scrittrice-rana si muove nella selva, si fa notare perché le sono cresciute sulla schiena scaglie iridescenti, la sua lingua lunga punta con insistenza a tutte le libellule della zona. La scrittrice-rana vuole nutrirsi, salvarsi.
Poi quello che accade è che qualcuno la rituffi in acqua, se ne liberi, la soffochi con mano grande fino a vederla scendere sul fondo.
Passano altri anni, passano altre ere e poi di nuovo la pesca intensiva, l’acciuffo, la riscoperta, l’emersione. Una storia che si ripete, ricorsiva e brutta, implacabile. Recupero-speranza-visibilità-vendita-riciclo-assenza-oblio.
Come si tiene in vita una scrittrice? Non per due anni, non per dieci, com’è che queste nostre donne non sono mai abbastanza longeve, abbastanza note, amate?
La timidezza
Ne faceva una questione d’amore anche Elsa Morante, quando diceva di sé stessa, in terza persona, che voleva essere poeta per essere amata. L’amore non dell’attimo e non del corpo, non dell’amante e non del marito, l’amore di chi legge e leggerà. I lettori, le lettrici future, future all’infinito, future tra due secoli, che ancora interrogano quei testi, che ancora li attendono come se fossero stati scritti da poco, neanche mezz’ora.
La timidezza delle scrittrici, abituate ad andare di moda per cinque anni e poi a doversi nascondere dietro alle tende, a chiedere di essere accolte alla grande sala della letteratura ma per rimanere al muro a guardare gli altri danzare. Una timidezza arrabbiata, turbata, che mette pena, uno stare dimesse quando al conto dei fatti si vorrebbe alzare la coda dritta e attaccare le caviglie di graffi.
Sono forse le scrittrici quelle uova dal guscio sottile, quelle figlie impossibili dei pappagallini della mia memoria? Devono essere loro, buttate fuori dall’alcova o schiacciate da troppe piume.
E allora a ogni sogno che faccio per loro, immagino di rubarle al nido, metterle al sicuro nella bambagia, guardarle rafforzarsi, mangiare tutto il tuorlo, per poi schiudersi, e restare nel mondo. Non una stagione, non il tempo dell’estate, ma sempre, costanti e focose, incandescenti.
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