- In più o meno 80 anni la percezione del corpo femminile è cambiata in maniera radicale ma spesso ci si porta dietro un retaggio che tende a costruire gerarchie basandosi sui numeri che appaiono sulla bilancia.
- Per essere chiari su come stavano le cose fino a poco tempo fa, basta leggersi l’articolo del magazine Vox che ripercorre la carriera del direttore artistico di Chanel, Karl Lagerfeld, riportando in maniera estremamente precisa le sue molte esternazioni contro i fisici femminili non taglia 38.
- L’Occidente evoluto ha deciso, a partire dai primi del Novecento, che alcuni canoni estetici sarebbero stati socialmente distintivi non tanto perché rari (gli occhi azzurri) quanto perché associabili facilmente a territori ricchi e nazioni potenti.
In Corpi al Sole, romanzo del 1941 di Agatha Christie con protagonista Hercule Poirot, il famosissimo investigatore, risolvendo l’ennesimo enigma legato a un omicidio, dice che «i corpi al sole sono tutti uguali». Senza svelare nessun finale, diciamo che Christie si riferisce al fatto che la conformazione fisica dei corpi femminili dell’Inghilterra degli anni Quaranta era molto simile, tanto da fare diventare indistinguibili due corpi stesi al sole di agosto e abbronzati. Oppure diciamo che non era neanche lontanamente concepibile che un corpo non conforme agli standard di accettabilità venisse inserito in una narrazione così universale.
Nella scena iniziale di Animali Notturni, film del 2016 del regista e fashion designer Tom Ford che ha vinto il Gran premio della Giuria al Festival del Cinema di Venezia, viene mostrato l’opening di una mostra di arte contemporanea il cui soggetto sono corpi di donna in grande sovrappeso che ballano felicemente davanti a una macchina da presa. Questa scena a distanza di qualche anno è tornata al centro dell’attenzione mediatica per aver scatenato un trend su TikTok: ci sono centinaia di video di giovanissimi che si riprendono guardando quella scena per la prima volta e registrando le reazioni che vanno in genere dalla sorpresa al disgusto.
In più o meno 80 anni la percezione del corpo femminile è cambiata in maniera radicale ma spesso ci si porta dietro un retaggio che tende a costruire gerarchie basandosi sui numeri che appaiono sulla bilancia. La moda ma anche la musica, terreni di esibizione mediatica per natura, hanno reagito a una richiesta di ridiscussione dei canoni di bellezza e di accettabilità mettendosi seriamente a riscrivere canoni estetici solidi come pietra.
Per essere chiari su come stavano le cose fino a poco tempo fa, basta leggersi un esaustivo articolo del magazine online Vox che ripercorre la carriera del direttore artistico di Chanel, l’osannatissimo Karl Lagerfeld, riportando in maniera estremamente precisa le sue molte esternazioni contro i fisici femminili non taglia 38.
Dall’intervista al giornale tedesco Focus in cui dice «nessuno ha voglia di vedere donne grasse» o «sono le madri grasse sedute davanti alla televisione mentre si mangiano patatine che dicono che le modelle sono troppo magre» fino a una dichiarazione su Metro France del 2012 in cui si meraviglia del fatto che Adele sia così grassa.
Schematismi estetici
Lagerfeld non è un caso isolato ma anzi è la rappresentazione di un atteggiamento estremamente popolare che il mondo della moda ha sostenuto per molto tempo aiutando a cristallizzare nell’immaginario collettivo il parallelo tra magrezza, bellezza e bontà d’animo.
Il problema di tutti gli schematismi estetici che suggeriscono una via facile a una autorappresentazione di successo è che dietro ognuno di loro si nasconde un giudizio morale e che, volontariamente o involontariamente, costruiscono dei cammini verso la finzione.
Quando verso gli anni Novanta la rappresentazione del corpo femminile è cambiata profondamente e Kate Moss è diventata il corpo da imitare, le riviste di moda, soprattutto quelle inglesi, fotografavano corpi scarni al limite della sofferenza fisica esercitando una critica nei confronti dei corpi pompati, adrenalinici e iper glamour degli anni Ottanta. Il loro intento era quindi di costruire un modello di riferimento alternativo a quello mainstream che parlasse di indipendenza da certi canoni e di identità ma quello stesso modello si è trasformato in una decina d’anni nell’ennesima prigione estetica che ha condizionato la percezione dei corpi e che ha portato Lagerfeld ad associarlo alla bellezza assoluta.
Quando sentiamo usare la parola inclusione dobbiamo pensare che da qualche anno è per fortuna partita una riflessione piuttosto diversa riguardo ai corpi e alle loro forme e che il punto non è più quale standard sia predominante e accettabile ma come fare a cancellare ogni traccia di giudizio e forse del concetto stesso di standard, anche da un territorio come la moda che vive esattamente di quello.
Una forma di controllo
Da un punto di vista psicologico dietro alla non accettazione di certe conformazioni fisiche esistono paure estremamente radicate: secondo sette studi diversi condotti dall’American Psychological Association la stragrande maggioranza delle persone di fronte a due corpi esattamente uguali ma con colori di pelle diversi pensano che un corpo nero sia più grande e potenzialmente più pericoloso. Cioè pensano che i neri siano una minaccia e che fisicamente sian più grandi. La grassofobia, cioè la paura o il disgusto per persone in sovrappeso, porta ad agire in una maniera istintivamente diversa verso chi ha una forma fisica non conforme agli standard.
In entrambi i casi da un punto di vista cognitivo si associa un particolare esteriore e del tutto irrilevante con un giudizio morale, categorizzando neri o sovrappeso come potenziali criminali, pericolosi perché culturalmente parte di un racconto che li dipinge come poveri, fuoriusciti, poco intelligenti o violenti.
Questa maniera di saldare il giudizio verso una persona al suo corpo (e anche alla sua supposta razza) non è in realtà un meccanismo di difesa quanto piuttosto una forma di controllo estremamente efficace. Facciamo un piccolo passo indietro nel tempo.
Un’unica origine
Per Charles Darwin l’origine dell’uomo deve essere intesa come unitaria: l’uomo e le scimmie antropomorfe provengono da un tronco comune, che si è diversificato per effetto dell’evoluzione. Il punto di vista di Darwin è che le diverse etnie si assomigliano l’una con l’altra in modo molto stretto se le si considera nella loro struttura di base. Inoltre, i caratteri distintivi razziali, estremamente variabili, una volta insorti quali variazioni spontanee si diffondono grazie alla selezione sessuale e attraverso continui mescolamenti, le razze mutano gradualmente l’una nell’altra, tanto che è difficile scoprire chiari caratteri distintivi tra di esse.
Poiché l’uomo moderno è quasi sicuramente nato in Africa, la variante pelle scura è quasi sicuramente quella originaria mentre le mutazioni che hanno portato a una pelle chiara si sono affermate nei paesi freddi e meno assolati in cui il carattere non presenta più svantaggi ma, al contrario, la pelle chiara facilita la sintesi di vitamina D anche in ambienti a scarsa irradiazione solare. Legati al clima sono, in maggior o minor misura, anche altri caratteri esterni: un naso alto e stretto è più vantaggioso in un clima freddo, permettendo un preriscaldamento dell’aria mentre la stessa forma che si riscontra anche nelle popolazioni del deserto sahariano favorisce un’umidificazione dell’aria.
I corpi delle donne africane, con accumuli adiposi estremamente localizzati nella zona dei fianchi, hanno una ragione evoluzionistica ma anche culturale: una donna con forme piene è considerata più bella perché simbolo di abbondanza e fertilità di una magra ma ha anche una speranza di vita maggiore in caso di carestia.
Canoni estetici
L’Occidente evoluto ha deciso, a partire dai primi del Novecento, che alcuni canoni estetici sarebbero stati socialmente distintivi non tanto perché rari (gli occhi azzurri) quanto perché associabili facilmente a territori ricchi e nazioni potenti. L’ideologia ariana è una derivazione aberrata di questo tipo di pensiero che è stata per fortuna superata ma fino a poco tempo fa magro, biondo e longilineo equivalevano a dire ricco, rappresentando una parte estremamente precisa della popolazione anglosassone.
Solidificare e rendere inattaccabili dei tratti estetici e quindi un tipo di gusto equivale a esercitare una forma di controllo che permette di includere o escludere dai privilegi sociali a seconda che si aderisca o no a questi standard. Barbie e i Kennedy lo dimostrano. Avere regole certe ha aiutato anche vendere di più, non solo vestiti, perché gestire un unico riferimento estetico in termini di comunicazione è molto più semplice che doverne includere diversi.
Con la Gen Z però processi di acquisto sono passati dall’ammirazione escludente all’identificazione inclusiva nel senso che oggi è considerato più credibile un personaggio che ha forti tratti di realismo più che un’inarrivabile celebrity. Per fare un esempio Cate Blanchett, attrice australiana bionda, algida e longilinea è stata scelta da Giorgio Armani come testimonial del suo profumo Sì che ha un target piuttosto maturo mentre Prada ha preferito affidarsi ad Hunter Schafer, attrice transgender divenuta famosa per la serie Euphoria.
In un contesto di richiesta di sincerità ma anche di giustizia sociale, dopo il movimento #metoo, varianti infinite di corpi hanno cominciato finalmente ad apparire in contesti in cui la moda d’abitudine comunicava perfezione, rompendo un mondo di armonia ormai percepito come artificiale. Brand come Valentino, Gucci o Balenciaga hanno forzatamente allargato gli orizzonti estetici della moda introducendo un elemento che costituisce l’unica vera innovazione degli ultimi anni.
È chiaro che il fine ultimo rimane aumentare i fatturati ma è altrettanto chiaro che un mondo che macina miliardi e ha una potenza mediatica senza uguali come quello della moda è diventato una gigantesca cassa di risonanza per istanze sociali che in questo modo non possono più essere ignorate.
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