Il grande scrittore, ormai in fin di vita, si trova presso un importante ospedale romano che cerca di mantenere uno stretto riserbo sulle sue condizioni di salute. Tuttavia, per blandire l’opinione pubblica e i media smaniosi di aggiornamenti, stila un bollettino giornaliero che viene diramato ogni sera, nell’ora vespertina, quando il tramonto diventa violetto e Monte Mario un presepio.

L’infermiera

Succede per caso che un’infermiera particolarmente intraprendente, una di quelle che gli cambiano la flebo, gli allunghi fin sul bordo del letto una copia de La lontananza, il suo romanzo più importante, quello che gli valse tanti anni prima un paio di premi prestigiosi e le traduzioni all’estero e un film candidato all’Oscar.

L’infermiera gli sussurra piano: «Me lo autograferebbe?».

Lo scrittore vede comparire il frontespizio de La lontananza e una biro pronta per lo scarabocchio. Prima di eseguire diligente il suo compito però ha come un sussulto di curiosità, una smania forse dettata dalla consapevolezza di essere ormai giunto agli sgoccioli della sua vita.

«Com’è secondo lei La lontananza?», chiede.

L’infermiera resta interdetta da quella domanda così semplice e disarmante, come formulata da un bambino e non da un grande scrittore.

«È un capolavoro», gli risponde senza titubanze.

Lo scrittore sorride: «Ma io non voglio che lei dica quello che hanno sempre detto tutti. Voglio la sua opinione sincera».

L’infermiera deglutisce a fatica: «Le confesso che non l’ho letto, ma lei è così famoso, dicono che sia già un classico!».

«Un classico», si mise a ridere brevemente lo scrittore, prima di apporre il suo bravo autografo.

L’ufficio stampa

Da quel momento lo scrittore s’inventa un nuovo gioco, un gioco che nella sua testa diventa un riscontro definitivo, prima della fatale e sempre più vicina dipartita. Chiederà a tutti un’opinione sincera su La lontananza, al di là del mito che era stato creato sulla sua opera così come sulla sua persona. In fondo a chi si nega un poco di sincerità sul letto di morte? Così chiama la sua storica addetta stampa e, dopo aver fatto il punto su come l’ospedale dovrebbe gestire la notizia del suo ricovero, le domanda a bruciapelo: «Com’è secondo te La lontananza?».

«È un capolavoro, perché me lo chiedi?».

«Lo hai mai letto davvero?».

L’ufficio stampa si lascia scappare un sospiro imbarazzato: «Cosa ti viene in mente? Cosa sono queste domande strane?».

«Ci conosciamo da più di trent’anni, credo che tu possa dirmi la verità».

L’ufficio stampa sorride affettuosamente: «Sai benissimo che per promuovere un libro non bisogna leggerlo».

L’editore

Lo scrittore mette a punto una strategia. Si fingerà smemorato – la malattia che lo assedia tutto sommato può giustificare una sorta di fiacchezza mentale – per costringere i suoi interlocutori a parlargli de La lontananza.

«Mi riassumeresti la trama?», domanda al suo editore, che si è presentato al suo capezzale con una scatola di cioccolatini che non può mangiare (le analisi del sangue sono tutte sballate).

«Da qualche giorno mi sento poco lucido, sento che le cose mi sfuggono», precisa. «E io invece vorrei trattenerle qui con me, anche solo per poco». 

«La lontananza è il tuo libro più bello, impossibile da dimenticare», attacca senza imbarazzo l’editore. «È la storia di una coppia borghese che viene fagocitata in un vortice di disperazione».

Lo scrittore ringrazia, anche se quella trama è inventata di sana pianta: «Hai altri particolari da raccontarmi? Sei stato un po' vago nella tua sinossi».

L’editore si massaggia le tempie, nel disperato tentativo di farsi venire qualche buona idea. «La mia scena preferita è quando lui e lei piangano insieme sul divano. Puro esistenzialismo!». 

Non c’è niente di anche lontanamente simile a questo ne La lontananza, lo scrittore lo sa perfettamente.

La moglie

Con la moglie si ripete il medesimo siparietto. Dopo i convenevoli resi ancora più sdilinquiti dall’aggravarsi della malattia, lo scrittore va subito al punto che gli sta a cuore.

«Amore mio», esordisce. «Mi diresti di cosa parla La lontananza?».

«È il tuo romanzo più famoso, possibile che non te lo ricordi più?».

«Mi sento piuttosto debole in questi giorni. E la memoria si è fatta labile».

La moglie si sistema sul ciglio del letto, guardandolo con una espressione di pena sbigottita: «Povero caro, sei tanto stanco, forse è meglio che tu riposi».

«Sì, però prima dimmi di cosa parla La lontananza».

La moglie si morde un labbro, sforzandosi di architettare una bugia credibile: «È la storia di un tradimento e di una vendetta».

«Ah sì? E chi tradisce e chi si vendica?».

«Un uomo tradisce una donna, e lei con pazienza aspetta il momento più opportuno per ottenere giustizia».

«Sei proprio sicura che questo sia il mio romanzo e non la storia della nostra vita?».

«Te lo garantisco!».

Lo scrittore socchiude gli occhi, finge di addormentarsi: neanche sua moglie l’aveva mai letto.  

L’amante

Quando nella stanza d’ospedale irrompe l’amante, lo scrittore tira un sospiro di sollievo. Lei, la complice clandestina di una vita, l’unica donna che avesse mai amato e con cui avesse condiviso la sua arte, almeno lei avrebbe dovuto sapere tutta la sua opera a memoria!

Lo scrittore la bacia con impudicizia sul bordo della morte, dopodiché implacabile la interpella: «Sapresti dirmi il plot de La lontananza?».

L’amante resta in silenzio. Sembra totalmente spiazzata da quella richiesta bizzarra, che ai suoi occhi non può non nascondere i primi vagiti di una demenza senile.

«Vuoi che chiami un’infermiera?», gli dice, al solo scopo di prendere tempo o sviare il discorso. «Hai bisogno di un antidolorifico? Di un sonnifero?».

Lo scrittore si rizza sul letto, adesso molto risentito: «Ho soltanto bisogno che tu mi racconti La lontananza, è una cosa tanto difficile da fare?».

L’amante farfuglia qualche parola, ma l’addolora troppo ingannare il suo grande amore, quindi singhiozzando sparisce di corsa dalla sua vista. “Neanche lei, neanche lei” si commisera tra sé lo scrittore.

La mamma

È stato deluso da tutti, tradito da tutti. Non resta che lei, l’essere supremo, colei la quale l’aveva messo al mondo. La madre entra nella stanza con la disperazione di chi si accinge a perdere il figlio. Lei è molto più decrepita di lui, ma a differenza di lui sta bene. Gli si mette di fianco, prende ad accarezzargli i capelli radi, devastati dalla chemio.

«Mamma sono quasi alla fine di questo viaggio terreno», comincia lo scrittore, volutamente elegiaco per sospingerla all’onestà. «Ti è piaciuto davvero il mio romanzo più importante, ovvero La lontananza?».

La madre strizza gli occhi, come se il romanzo del figlio si fosse materializzato nella stanza e dovesse essere messo a fuoco: «Certo che mi è piaciuto, è il tuo capolavoro».

Lo scrittore sbuffa: «Questo è quello che dicono tutti, ma io voglio sapere cosa ne pensi tu».

La madre tace e per un momento allo scrittore cade il mondo addosso. Possibile che neppure sua madre avesse mai letto una riga di quanto aveva scritto? Cos’è quella incertezza, quella titubanza se non una palese impossibilità di dare una risposta? La lontananza adesso ha smesso di essere il titolo del suo romanzo ed è proprio lì, pesante nel letto insieme a loro. Forse è stato stupido a pretendere da quella vecchia donna una lucidità che lui stesso, sebbene esagerando, non possedeva più.

«Mamma, non ti viene in mente nulla de La lontananza?», la pungola, subdolo. «Mi ricordo che adoravi la scena del sacrificio nell’uliveto».

Gli occhi della madre si illuminano improvvisamente: «Ah, sì, adesso mi ricordo! Andavo matta per la scena del sacrificio nell’uliveto».

Lo scrittore muore esattamente in quell’istante: la scena del sacrificio nell’uliveto non esiste.

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