Quattordicesima puntata del romanzo di Antonio d’Orrico. Riassunto puntate precedenti. Siena, sabato 7 settembre 1985, Italo Calvino sta per essere operato di aneurisma cerebrale. Intanto in piazza del Campo è sparito un prezioso manoscritto
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
(Riassunto puntate precedenti. Siena, sabato 7 settembre 1985, Italo Calvino sta per essere operato di aneurisma cerebrale. Intanto in piazza del Campo, dove sono riuniti alcuni personaggi di questo romanzetto, tra cui il giovane cronista che lo racconta, è sparito un prezioso manoscritto)
«Era il manoscritto di un romanzo mai pubblicato di Calvino. Era lì sul tavolo e ora non c’è più» spiegai a Ginevra che non capiva perché Giorgio e io ci guardassimo intorno stravolti.
«Come mai ce l’avete voi?» domandò.
«È una lunga storia» risposi.
«Eccolo qui!» urlò Giorgio avventandosi sul tavolo dove era seduto il cameriere che poco prima mi aveva portato il whisky e a cui, per ringraziarlo della sua prontezza, aveva elargito una mancia equivalente al riscatto pagato per un sequestro di persona.
Il ragazzo era assorto nella lettura del manoscritto, avulso dal casino circostante.
«Mi dispiace ma questo è nostro» disse Giorgio cercando di afferrare il manoscritto. Il cameriere reagì stringendoselo al petto.
«Uhe! Nixon! Giù le mani da Cuba!» gli intimò Giorgio come Ugo Tognazzi nel film Romanzo popolare. Era una delle sue battute preferite e pronunciarla in quel momento era il segno del suo sollievo per aver ritrovato il manoscritto.
Alla fine ci chiarimmo e il cameriere ci consegnò la cartellina gialla con i fogli scritti da Calvino, però prima chiese il permesso di poter fare delle fotocopie.
«Fotocopie?» domandai.
«Sì, ci metto un attimo. C’è una cartoleria qui vicino. Mi piacerebbe continuare a leggere questa bellissima storia».
Gli giurai che un giorno l’avrei accontentato.
«Un giorno quando? Per favore, muoio dalla voglia di sapere come va a finire» disse lui come un eroinomane che mendica una dose. La storia inedita di Calvino lo aveva stregato.
Tagliai corto: «Presto. Ora dobbiamo andare». Gli strinsi la mano e mi vennero in mente certi vecchi racconti scritti da Calvino quando non aveva ancora trent’anni. Una serie di storie che si intitolavano tutte allo stesso modo: L’avventura di un soldato, L’avventura di un impiegato, L’avventura di un miope…
In quel momento capii che non erano semplici racconti ma una specie di sistema che spiegava come funzionava il mondo. Ognuno di noi era protagonista di una storia e queste storie si incrociavano come fili di una ragnatela. Anche quel sabato mattina, mentre mi trovavo in piazza del Campo, tante storie si stavano intrecciando. L’avventura di uno scrittore che deve essere operato alla testa in un ospedale che fu anticamente albergo di cavalieri, mercanti e pellegrini. L’avventura di un manoscritto ripudiato dal suo autore. L’avventura di un cameriere di Siena vittima di un crudele incantesimo che gli impedisce di sapere come va a finire una storia di cui si è pazzamente innamorato. E se uno collegava tutte quelle avventure, come nel gioco della Settimana enigmistica in cui si devono unire i puntini per ottenere una figura, alla fine sarebbe apparsa una storia più grande che avrebbe spiegato ogni cosa.
La Underwood
Ci avviammo verso l’ospedale. Pensai di portarmi avanti con il lavoro e domandare a Ginevra informazioni sull’imminente intervento chirurgico a cui stava per essere sottoposto Calvino, ma Giorgio mi anticipò e le chiese notizie della Underwood, la vecchia macchina da scrivere che l’infermiera mi aveva prestato il giorno precedente. Per quali arcane peripezie un cimelio, che uno si sarebbe aspettato di trovare casomai nella redazione di un giornale o nello studio di un romanziere, era finito invece nell’ospedale dove era ricoverato un grande scrittore ed era servita a un cronista per comporre il suo primo pezzo da prima pagina?
Ginevra rispose che la Underwood faceva parte dell’eredità lasciata al Santa Maria della Scala da una paziente che aveva voluto donare i suoi beni all’ospedale dove era stata amorevolmente curata nell’ultimo pezzo della sua vita. Benché ancora perfettamente funzionante, come avevo avuto modo di sperimentare di persona, la Underwood era stata degradata a soprammobile e prendeva polvere negli uffici amministrativi del nosocomio. Nessuno la usava mai e prevedibilmente, dato che il vecchio ospedale di Siena si era dotato di computer, nessuno la avrebbe mai usata nemmeno in futuro. A Ginevra le si stringeva il cuore a vedere la Underwood, che era bella, nera e maestosa come un pianoforte, abbandonata su un tavolo negli uffici dell’amministrazione. Lei, forse per deformazione professionale, aveva “la pietà facile” (parole sue). Il dottor Persico del reparto di Neurochirurgia la rimproverava sempre per questo: un’infermiera doveva essere distaccata. Ma era più forte di lei, oltre che per le persone si commuoveva anche per le cose, per un pezzo di ferro come quella macchina da scrivere, ad esempio.
Quando il giorno prima le avevo domandato dove avrei potuto trovare una macchina da scrivere sulla quale battere il mio articolo, a lei era venuta subito in mente la Underwood malinconicamente in disuso ed era stata felice di metterla a mia disposizione. Anche se, aggiunse, la sua iniziativa non era piaciuta e qualcuno in ospedale aveva avuto da ridire. Secondo me era stato il dottor Persico a lamentarsi, ma non dissi nulla. Comunque, Ginevra era felice di aver dato alla vecchia Underwood l’occasione ormai insperata di farsi valere, di tornare a ticchettare come ai suoi tempi gloriosi.
Fu un discorso lungo, ma pronunciato da Ginevra d’un fiato quasi mangiandosi le parole. Giorgio la guardò e disse qualcosa che, per una persona timida quale ero io negli affari sentimentali, suonò come una deflagrazione: «Secondo me, voi siete due ragazzi fatti l’uno per l’altra».
Ginevra scoppiò a ridere. Io preferii buttarla in letteratura, come sempre quando mi trovo in panne, e dissi a Ginevra: «Bello quello che hai detto. Potrebbe essere un racconto di Calvino: L’avventura di una macchina da scrivere». Era una nuova storia che si incrociava nella tela che si stava tessendo quel sabato mattina a opera di uno sconosciuto ragno mentre Calvino aspettava di essere operato.
Eravamo arrivati davanti all’ingresso di Santa Maria della Scala che ricordava, tanto per restare nei paesaggi e nelle atmosfere amati dallo scrittore, l’entrata di un antico castello.
Ginevra ci chiese se per stare tranquilli volevamo affidarle il prezioso manoscritto, lo avrebbe chiuso a chiave nel luogo più sicuro dell’ospedale, l’armadietto dove tenevano i veleni e a cui soltanto in due avevano accesso, lei e una persona di assoluta fiducia. Lanciai un’occhiata a Giorgio e lui, ancora mortificato per averlo perso di vista poco prima in piazza, fece cenno di sì. Credo che trovasse divertente l’idea di nascondere il manoscritto nell’armadio dei medicinali che potevano rivelarsi letali. Una trovata alla Agatha Christie che forse sarebbe piaciuta allo stesso Calvino.
Consegnai a Ginevra il malloppo che ormai scottava peggio di una refurtiva. E, senza averne l’intenzione, assunsi un’espressione solenne tanto che il jukebox che avevo nel cervello (o nel cuore?), dove immagazzinavo versi di canzoni e brani di romanzi imparati a memoria, selezionò una frase di Gadda, letta chissà quanto tempo prima e fissata nei miei ricordi senza una ragione precisa. Una frase che avevo dimenticato di aver memorizzato, mai gettonata, che diceva: «Fino alla maggiore età della pupilla, il malloppo doveva essere conferito, per l’amministrazione, a due curatori». Era un’avvertenza? Un messaggio cifrato? Perché spuntava fuori proprio allora? L’unico significato possibile mi parve il fatto che, nel nostro caso, i curatori del malloppo erano tre e non due come nella frase di Gadda. A me e a Giorgio si era aggiunta Ginevra. E magari ce n’era pure un quarto: il cameriere folgorato dalle prime pagine del manoscritto. Cominciavamo a essere un po’ troppi a sapere di un romanzo che doveva restare segreto. Era questo il contenuto del messaggio sibillino speditomi da Gadda?
Ginevra corse a mettere al sicuro il manoscritto nell’armadietto dei veleni. Sperai che l’altra persona in possesso della chiave non fosse quel simpaticone del dottor Persico.
«Scappo a Grosseto. Ma torno stasera. Ho avuto un’idea e te ne voglio parlare» disse Giorgio.
Per un attimo passò anche a me un’idea per la testa, sfrecciò velocissima e improvvisa come una stella cadente la notte del 10 agosto. Non riuscii a trattenerla. Però mi lasciò addosso una sensazione di paura, di terrore addirittura.
(Fine quattordicesima puntata - continua)
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