(Riassunto puntate precedenti. Un giovane cronista, inviato a Siena dove lo scrittore Italo Calvino è ricoverato in ospedale colpito da ictus, si insospettisce per lo strano comportamento di un cronista di nera suo vecchio amico)

Era il 7 settembre 1985, era sabato, era la mattina presto del giorno X. Stavano per operare al cervello Italo Calvino. Non un cervello qualsiasi ma quello da cui erano scaturite tutte le fascinose storie da lui scritte. Storie di baroni e cavalieri, nidi di ragno e viaggiatori notturni, speculatori edilizi e uomini primitivi, batteristi londinesi e donne sulla spiaggia in topless. Il cervello dal quale sarebbero scaturite anche tutte le storie che ancora non aveva scritto. Ma avrebbe avuto Calvino il tempo di farlo?

Era il giorno X. Eppure non ero di sentinella, come il dovere imponeva, all’ospedale di Santa Maria della Scala. Non inseguivo trafelato medici e infermieri per carpire informazioni utili all’articolo in cui l’indomani avrei ragguagliato i lettori del mio giornale sul destino del grande scrittore (l’operazione sarebbe riuscita? avrebbe ripreso il suo posto nel mondo?).

Se il mio capocronista, soprannominato in redazione Nero Wolfe, il celebre detective che non si alzava quasi mai dalla sua sedia, fosse venuto a Siena come un medico fiscale in visita di controllo, mi avrebbe sorpreso al Caffè Nannini in compagnia dell’infermiera più sexy del Santa Maria della Scala (Ginevra) e di un altro suo giornalista (il mio vecchio amico Giorgio S, cronista di nera), il quale si sarebbe dovuto trovare pure lui da tutt’altra parte, precisamente a Grosseto, per un appuntamento con un informatore misterioso al corrente di particolari inediti sul sensazionale caso del travestito fatto a pezzi nella vasca da bagno.

Di me, che me la spassavo invece di lavorare, Nero Wolfe non si sarebbe meravigliato poi così tanto. Da tempo dubitava che, preso come ero dalle mie aspirazioni letterarie, avessi il sacro fuoco del giornalismo. Con Giorgio, però, era tutto un altro paio di maniche. Mai Nero si sarebbe aspettato di vederlo lì a zonzo dando buca a un prezioso informatore. Giorgio, il suo antico sodale, al cui fianco aveva passato nottate intere a spulciare vocabolari in cerca dell’aggettivo giusto (macabro? maledetto? malefico? maligno? malvagio? marcio? nazistoide? patibolare? sadico? serpentesco? sinistro?) con cui bollare il maniaco assassino che da anni terrorizzava Firenze massacrando giovani coppie.

Avrebbe commesso un errore grossolano Nero Wolfe a pensare che Giorgio e io eravamo lì al caffè a sbagasciarci. Era in corso un dramma, forse la fine di una grande amicizia. Avevo appena avuto il sospetto che Giorgio mi stesse giocando un brutto tiro. Davanti a miei occhi scorrevano a velocità supersonica (la velocità della paranoia) le sequenze di un film sugli avvenimenti delle ultime ore e assumevano una logica stringente che, magicamente, faceva tornare tutto.

La postilla

Scena prima: Calvino e io ci scambiamo i rispettivi manoscritti.

(Postilla alla scena prima, un po’ lunga ma necessaria)

Il manoscritto di Calvino è quello, a cui già ho accennato, del romanzo pop con il quale intende cambiare radicalmente l’immagine troppo seriosa che si ha di lui. Il mio manoscritto, invece, è un romanzo-inchiesta sull’amore segreto tra Calvino e Elsa De Giorgi, la diva dei film dei telefoni bianchi (scenograficamente simbolo di eleganza e ricchezza in contrapposizione ai lugubri apparecchi in bachelite dei comuni mortali), le commedie cinematografiche leggerissime somministrate agli italiani durante la dittatura a guisa di bromuro. La relazione con la bellissima attrice era un pezzo della sua biografia di cui comprensibilmente Calvino non amava parlare e, soprattutto, sentir parlare. «Non fate troppi pettegolezzi», aveva scritto il suo maestro prima di andarsene. Mi ero dedicato anima e corpo a ricostruire quella passione tempestosa divampata in pieni anni Cinquanta tra un giovane scrittore (nato esoticamente a Santiago de Las Vegas da una famiglia di botanici, cresciuto a Sanremo, la città dei fiori, combattente partigiano, giornalista dell’Unità, pubblico accusatore del partito comunista che faceva il pesce in barile riguardo all’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS), e una diva quasi da cinema muto (proveniente da una famiglia nobile marchigiana, moglie di un conte, grande collezionista d’arte, che a un certo punto sparisce misteriosamente forse ferito dal tradimento coniugale).

Una diva fatale e uno scrittore impegnato si amano sullo sfondo della ricostruzione italiana nel dopoguerra. Sembrava il soggetto perfetto per un film che avrebbe mandato in sollucchero sia gli amanti del genere telefoni bianchi, sia i patiti del cinema engagé. Per documentarmi mi ero sciroppato i film di cui Elsa era stata la star. Tutti meno uno: L’impiegata di papà, del quale non esistevano più copie, andate distrutte durante i bombardamenti. Ero riuscito lo stesso a ricostruirne la trama grazie a Francesco Maria Colombino, il critico cinematografico del giornale, un pozzo di scienza nel suo settore.

La protagonista del film fantasma L’impiegata di papà è la rampolla viziatissima e spendacciona di un banchiere. Chiamiamola Elsa (ovviamente era la nostra diva a interpretare il ruolo). Stufo di mantenerla, il padre assume Elsa nella sua banca. D’ora in poi la rampolla dovrà farsi bastare il suo stipendio senza più dissanguare il patrimonio paterno.

Anche gli impiegati di banca si innamorano e scoppia una passione tra Elsa, la cui vera identità viene tenuta nascosta sul posto di lavoro, e un collega assai belloccio. Costui ben presto subodora un mistero nella vita della fidanzata. Una cosa, soprattutto, lo mette in allarme. Elsa e il banchiere si trattano con una confidenza inconsueta tra un capo e una sottoposta. C’è sotto qualcosa. Vuoi vedere che tra i due c’è una tresca? Roso dai sospetti, l’impiegato vuole sapere la verità, costi quel che costi, e trova il modo di introdursi di soppiatto in casa del banchiere dove, a conferma delle sue peggiori supposizioni, trova Elsa che chiacchiera tranquillamente con un’amica al telefono (bianco). Ecco la soluzione del mistero. Lei è l’amante del capo, di un vecchio che potrebbe esserle padre. Il fidanzato tradito è sconvolto, sul punto di commettere qualcosa di irreparabile. Ma è un mondo in cui i telefoni sono bianchi, i treni arrivano in orario e i film finiscono bene. L’equivoco viene chiarito, i due giovani si sposano.

Avevo scritto la liaison De Giorgi/Calvino in punta di penna, quasi con affetto. E avevo consegnato il manoscritto a un editore che ne era rimasto entusiasta. Però per stamparlo pretendeva l’autorizzazione dello scrittore (a quella dell’attrice ci avrebbe pensato lui). Così, tre mesi prima dei fatti qui narrati, facendomi raccomandare da una persona che lo conosceva bene, ero andato a parlare con Calvino. Pensavo che mi avrebbe sbattuto fuori dopo pochi minuti, invece, con mia grande sorpresa, aveva accettato di leggere il manoscritto. In cambio, con mio ancora maggiore stupore, mi aveva chiesto di leggere un suo manoscritto (l’avventura del sassofonista sudamericano eccetera, eccetera) che non lo convinceva a pieno. Gli interessava il parere di un giovane estraneo al suo solito giro. Capii dal brillio improvviso e divertito dei suoi occhi che covava qualcosa in mente, un piano a me ignoto. Ma mi dissi “chi vivrà vedrà” e accettai il baratto dei manoscritti incrociati.

(Fine della postilla necessaria alla scena prima)

Le altre scene

Scena seconda: Calvino viene colpito da ictus e proprio io vengo inviato a Siena.

Scena terza: Giorgio S mi raggiunge nottetempo a Siena con la scusa di portarmi del materiale d’archivio che può essermi utile. Un gesto da amico vero. In realtà, mi sta tendendo un agguato. Mi convince ad affidargli il prezioso, scottante manoscritto di Calvino. Ci penserà lui a custodirlo.

Scena quarta: la mattina dopo (giorno dell’operazione a Calvino) sorprendo Giorgio, che dovrebbe trovarsi altrove per servizio, seduto al tavolo di un rinomato locale in piazza del Campo a leggere avidamente il manoscritto.

Scena finale (futura): Calvino è morto e fa il giro del mondo un lungo e bellissimo articolo sul suo ultimo, stupefacente manoscritto. La firma in calce al pezzo è di Giorgio S.

Ero in preda a un attacco di paranoia o le cose stavano davvero così?

(Fine dodicesima puntata – continua)

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