La pace è spesso intesa come un’assenza di guerra, come un oggetto residuale: ciò che esiste quando non esiste il conflitto. Una condizione passiva che permane finché nulla la disturba. Una concessione del destino, un privilegio e di conseguenza un generatore di pigrizia. Quando si riapre la possibilità di parlare di guerra, alcuni mostrano dunque un’eccitazione, mossi dal desiderio di novità e di scosse di realismo: la guerra è risveglio, metafora energica, presa di posizione. Naturalmente se si parla di guerra è perché, purtroppo, ci sono le condizioni per parlarne. Subito la pace a cui si è stati abituati in un certo angolo di mondo va incontro a un processo di svalutazione: appare come un accidente, e non come un esercizio che ha richiesto sforzo, studio e persino dramma. Questa visione è quella che, presumo, porta taluni a dire che i giovani sono deboli per via dell’eccesso di pace, e che forse un po’ di rischio di guerra li tonificherà. Per reazione a queste uscite, altri si dicono sostenitori della pace come valore, costruiscono il polo opposto, insultano i “guerrafondai”, ma non vanno molto oltre. Pochi si soffermano ad affermare una realtà fondamentale: la pace non è solo un valore da preservare, ma è un lavoro, ed è un lavoro collettivo al quale volenti o nolenti si deve partecipare tutti costantemente. La pace è energia spirituale e stimolo intellettuale, ed è una fatica immane. Distruggere è più facile rispetto a costruire, e questo non è buonismo: è una legge fisica, un principio della termodinamica. Ma se questa è la legge, la pace non è una scelta dei deboli, al contrario è la virtù di chi è sano, robusto e vitale. Solo che il lavoro va fatto. Non fare nulla, ovviamente, non è pace. Il progetto La pace è dunque un progetto attivo. È architettura sociale, economica e politica da costruire, mantenere e difendere con determinazione. Se esiste una preparazione alla guerra fatta di investimenti in eserciti, armi, strategie militari e alleanze difensive, esiste una preparazione alla pace fatta di istituzioni, educazione, politiche economiche e scelte culturali. La pace è un pesantissimo discorso di lungo termine, ma è un lungo termine per noi interessante: è lo scenario in cui non saremo morti. La pace non è la condizione naturale dell’umanità. La guerra è più naturale, è una costante delle società umane, un vizio genetico, un lento lasciarsi andare verso la versione meno intelligente di noi stessi. La guerra è, più della pace, il risultato di una somma di atteggiamenti intellettualmente passivi. Volendo, tenetevi forte, la guerra è da smidollati. Non la pace. Talvolta la guerra si rivela inevitabile, e qui sta la ragione per cui ha senso valutare una preparazione (all’inevitabile). Lelottedipoteresonopiùaspredovelapostaingiocoèpiùbassa Il bivio Ma questa preparazione non deve offuscare la necessità di un progetto attivo di pace. Di cosa abbiamo bisogno per prepararci a coltivare la pace con la serietà con cui alcuni intendono prepararsi alla guerra? In fondo si è sempre di fronte a un bivio. Anzitutto c’è l’economia, che può essere sia causa di conflitto sia deterrente alla guerra. Il commercio internazionale e la cooperazione economica sono possibili fondamenta di pace. L’integrazione economica trasforma paesi che si erano combattuti per secoli in partner stretti. Prepararsi alla pace significa costruire un’economia basata sull’interdipendenza (ma che sia reale e equilibrata), sulla riduzione delle disuguaglianze globali e su meccanismi di cooperazione che riducano la competizione distruttiva per le risorse. Poi ci sono le istituzioni. Le guerre scoppiano più facilmente quando mancano strutture in grado di mediare i conflitti prima che degenerino. Forse le istituzioni internazionali che abbiamo sono imperfette. Prepararsi alla pace richiede istituzioni più forti, ma anche più amate e rispettate. Capaci non solo di intervenire nelle crisi, ma anche di prevenirle. I leader populisti che insultano la diplomazia devono destare in noi la massima riprovazione. Le istituzioni di pace non sono meno importanti degli eserciti. Infine, la guerra non è solo un fenomeno politico ed economico, ma anche culturale. Mettere sotto una luce positiva la guerra è un errore intellettuale. Prepararsi a coltivare la pace significa fare attenzione al modo in cui ci si rivolge alle nuove generazioni e non solo: a tutti. Non dire “sei debole, la pace ti ha infiacchito”, ma dire “rifletti su quale può essere il tuo apporto concreto alla pace”. Il tuo ruolo nel lavoro di pace. La tua fatica, il tuo sforzo, il tuo tributo termodinamico.