Tra le lezioni che ci ha lasciato il Covid, e le speranze per il futuro, non dimentichiamoci del sistema fallace che abbiamo costruito per l’assistenza alla terza età e le disabilità, e del fatto che la vita è fatta di tempo che non sappiamo quando scade
- L’opera di Charles Dickens, Canto di Natale, parla di fantasmi, di finitezza, di tempo che ticchetta e non sappiamo quando scade.
- Annarosa trova più complessa questa fase rispetto alla prima: «C’era più senso di unità e di intenti». Anche lei ha l’impressione che sia calato un velo di riserbo rispetto alla morte, specie se causata da Coronavirus. È come se su questo fosse calata l’aura da “brutto male” un tempo riservata al cancro. Una circospezione superstiziosa.
- Il 27 dicembre è stato anche il giorno del primo vaccino, e dal momento che tra Natale e Capodanno non si sfugge alla speranza allora spero anch’io.
La prima frase del Canto di Natale di Charles Dickens è: «Marley era morto, tanto per cominciare». Per quanto le sue più recenti rivisitazioni non indugino troppo su questa peculiare apertura, non è possibile aggirare il fatto che l’opera, nel suo complesso, parla di fantasmi, di finitezza, di tempo che ticchetta e non sappiamo quando scade. È una delle mie storie preferite perché è commovente, ironica, macabra e non retorica.
Tra le varie cose sembra raccontare quanto è bello sedersi tutti insieme attorno a un tavolo, ma è più preciso dire che racconta quanto è importante non fregarsene degli altri. E non fregarsene degli altri, questo 2020 ce lo ha insegnato, può stare a significare anche l’esatto contrario della vicinanza fisica.
La passeggiata della Vigilia
Il giorno della Vigilia mi sono avviata verso la casa di una cara signora che non vedevo da tempo. In questa valle pedemontana i tragitti dal punto A al punto B sono qualcosa di analogo alla passeggiata nel bosco di Cappuccetto Rosso, ma senza lupo, nel senso che non c’è proprio nessuno nel raggio di chilometri. Però c’è un antico reperto romano che viene tradizionalmente decorato con una scritta al neon che esclama “Buone feste”. Quest’anno è stata posizionata solo la stella cometa, senza alcun augurio verbale.
La signora Miranda mi conosce da quando ero bambina e ogni volta che ci vediamo non manca mai di ricordare i due elementi cardine della nostra amicizia: la passione per i gatti e il budino che solo una pandemia le ha impedito di servirmi. Miranda è da poco rimasta vedova.
La patologia del marito non era legata al Coronavirus ma, onde evitare un’ospedalizzazione solitaria, hanno optato per l’assistenza con cure palliative in casa, fino alla fine. L’ho trovata con il trucco e la permanente corvina di sempre, energica e traboccante di abbracci che non può dispensare. Più malinconica. Nella sua cucina, a giusta distanza e protette dalle mascherine, vedo con chiarezza che il suo dolore è immenso, e mi rassicuro quando racconta che il servizio sanitario le ha garantito assistenza psicologica sia prima che adesso, nell’elaborazione post lutto.
Mi rassicura anche vederla alzarsi più volte per rispondere al telefono a persone amiche, che sembrano non avere alcuna intenzione di lasciarla da sola. Dalle nostre chiacchiere emerge presto che in paese nessuno ha troppa voglia di parlare del virus, si discute dei Dpcm piuttosto che del contagio in sé. Anche tra di noi il discorso si sposta presto verso considerazioni sulla solitudine del cigno del lago, rimasto a sua volta vedovo lo scorso anno nell’indifferenza delle autorità competenti.
Torno a casa con in tasca una sua poesia, che inizia così: «Un immenso velo nero, invisibile, silenzioso calò sulla terra, ma nessuno si accorse di niente, un velo che portava dolore e morte, ma nessuno si accorse di niente».
Sentirsi vicini a Natale
Il giorno di Natale ho chiamato Annarosa Tonin, che vive in un quartiere del centro città, a separarci dieci minuti di macchina che al momento sembrano galassie. Annarosa è una scrittrice e una caregiver. Nella dimensione domestica si dedica a libri, racconti e, insieme al fratello, all’accudimento del padre malato di Alzheimer.
Mi racconta che in questi mesi gli accorgimenti si sono dovuti più che raddoppiare. C’è però anche «la necessità di stemperare l’angoscia per non caricare di ulteriori ansie te stesso e l’accudito». Loro hanno trovato una soluzione nel recupero sensoriale di pezzi di realtà attraverso la raccolta di ricordi: vecchie fotografie, libri, riviste, film da guardare insieme per ricreare un microcosmo abitabile e non perdere il contatto con il mondo.
La fatica la sente soprattutto lavorando in casa, ma anche grazie a una solida rete famigliare ha da poco pubblicato un romanzo sul confine tra il dare e il togliere la vita, fatto di voci defunte che parlano attraverso i luoghi (Anatolia, Digressioni 2020).
Annarosa trova più complessa questa fase rispetto alla prima: «C’era più senso di unità e di intenti. Adesso noto disorientamento e individualismo riemerso». Anche lei ha l’impressione che sia calato un velo di riserbo rispetto alla morte, specie se causata da Coronavirus. È come se su questo fosse calata l’aura da “brutto male” un tempo riservata al cancro. Una circospezione superstiziosa che porta inconsciamente a pensare che basti non nominarlo per non evocarlo. «Nei negozi di beni primari, unici luoghi in cui per necessità incontro delle persone», racconta, «sento un largo uso di perifrasi che silenziano non solo il nome del virus, ma anche i propri stati d’animo e pensieri a riguardo».
Notizie da Roma
Il giorno di Santo Stefano ho chiamato i parenti a Roma, ovvero mio cugino e la moglie, che qui chiameremo G. e P..
G. e P. abitano tra Colli Aniene e Santa Maria del Soccorso, nello stesso appartamento popolare dove, con i miei genitori, ho trascorso i primi anni dell’infanzia. Non scendo da un pezzo, mi mancano loro come mi manca la libertà di spostamento a cuor leggero.
G. mi conferma che, anche lì, con il lockdown di marzo c’è stato un “avvicinamento a distanza” con gente del palazzo mai considerata prima. Lui però aveva più paura, mentre ora è subentrato uno strano senso di abitudine che si infrange solo quando si tratta dei figli, se devono prendere mezzi di trasporto affollati, o se si verificano contagi a scuola. Quando il telefono passa in mano a P. le chiedo degli amici di cui mi parlava, quelli che lavorano in ospedale. Mi racconta che stanno bene, ma che sono aumentati i contagi tra il personale e non è rimasta una sola struttura in città che sia Covid-free.
Le chiedo dei bambini e mi mordo la lingua, perché i bambini sono due ragazzoni adolescenti ben più alti di me: il maggiore ha quasi diciassette anni, il minore frequenta la terza media. Sono stupendi e non immagino come abbiano incassato quasi un anno di fermo, dunque me lo spiegano i genitori. «Ne hanno risentito perché l’apatia è inevitabile, dentro casa, in pigiama, senza vedere nessuno, con le stagioni che fuori cambiano. Il più piccolo però, ne ha risentito più di tutti».
P. racconta che a settembre ha avuto un crollo emotivo, perché lui ha delle fragilità psicologiche diagnosticate e da sempre seguite al meglio, ma quando il sistema si è fermato chiudendolo in casa, si sono fermate anche le sue fonti di equilibrio. Stava così male che hanno dovuto ricorrere al pronto soccorso per avere un aiuto.
P. non riesce a puntare il dito contro nessuno: «Penso che, nel panico, nessuno sapesse da che parte prendere la situazione, e lo comprendo, ma ci sono tante persone con gravi patologie lasciate a se stesse. Il signore che abita sopra di noi è anziano e fragile, ha una malattia polmonare ed è rimasto così tanto chiuso in casa che adesso si rifiuta di uscire, gli è presa una sorta di depressione». Mentre racconta penso all’appartamento, al palazzo, al comprensorio e a tutto il quartiere, agli spazi vitali e ai servizi, ma soprattutto penso a chi ha detto che davanti alla pandemia siamo tutti uguali.
Il giorno del vaccino
La mattina del ventisette sono rientrata dalla mia principale attività fisica del momento: correre goffamente attorno al lago con cappotto e pigiama. Nella cassetta della posta ho trovato il giornalino della Proloco. All’interno un articolo sull’antico sistema di produzione della calce nel territorio prealpino centro orientale e, a pagina diciotto, l’elenco dei morti degli anni 2019 e 2020. Maria, Adriana, Giuseppe, Virginia, Lidia, Matteo…li leggo, li conto, e noto principalmente due cose.
La prima è che nella valle non c’è stato un aumento dei decessi, la seconda è che i nomi di chi, so per certo, è morto a causa del virus, sono di persone che erano da tempo ricoverate presso case di riposo e Rsa. Poi c’è un nome, che ai miei occhi annebbiati dall’eccesso di ossigenazione pare brillare più degli altri. È quello di un signore che poco dopo la riapertura primaverile ha deciso di chiudere con la vita. Era un artigiano eccellente, e mi dispiace.
Il ventisette dicembre è stato anche il giorno del primo vaccino, culmine di quel corteo di camion attesi più di ogni slitta, e dal momento che tra Natale e Capodanno non si sfugge alla speranza allora spero anch’io.
Spero che nei prossimi, delicatissimi mesi, non dovremo ancora contare i morti a decine di migliaia, che non se ne rimuovano le identità pur di reggere mentalmente e fisicamente il quotidiano, che meno persone siano lasciate da sole, che una volta raggiunta l’auspicata immunità di gregge non ci si dimentichi che abbiamo costruito un sistema fallace, industrializzato e non solidale dell’assistenza alla terza età, alla disabilità, alla malattia psichiatrica e terminale.
Spero, soprattutto, che si arrivi a comprendere che non è possibile aggirare il fatto che la vita, nel suo complesso, è fatta di fantasmi, di finitezza, di tempo che ticchetta e non sappiamo quando scade.
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