Il regista ha sempre avuto un rapporto controverso con la sua città d’adozione, che ha celebrato 50 anni fa con Amarcord: un film che è un addio sprezzante e un omaggio a Rimini e alla rimininesità
Federico Fellini ha sempre avuto un rapporto controverso con Rimini, la sua città d’adozione. Lui stesso ha alimentato questo contrasto, e lo ha fatto a modo suo usando la poesia, la bugia (per come intendeva lui questa parola) e il sogno.
Probabilmente viveva un dualismo interno, da un lato non si riconosceva più in quella città, ne capiva i limiti e ne soffriva per la mancata riconoscenza, dall’altro gli era debitore perché lì si era formato e gli aveva fatto conoscere l’età della spensieratezza più totale.
«Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare». Così il maestro Federico Fellini ha descritto Rimini, la rappresentazione di una città che è tutto e il contrario di tutto. Questo rapporto con la sua città natale l’ha immortalato nel suo film più conosciuto, con cui ha vinto il suo quarto Oscar nel 1975, Amarcord, in cui proprio in questi giorni ricorre il 50esimo anniversario della sua uscita nelle sale.
Giro di boa
Fellini gira il film quando ha da poco compiuto 50 anni, una stagione della vita sempre significativa per ogni uomo, il giro di boa del percorso umano e lui così racconta la genesi di quel film.
«Era da tempo che avevo in animo di fare un film sul mio paese; il paese dove sono nato, intendo. Mi si potrà obiettare che in fin dei conti non ho fatto altro; forse è vero; eppure io continuavo a sentirmi come ingombrato, perfino infastidito, da tutta una serie di personaggi, di situazioni, di atmosfere, di ricordi veri o inventati, che avevano a che fare con il mio paese e così, per liberarmene definitivamente, sono stato costretto a sistemarli in un film. (…) Amarcord quindi voleva essere il commiato definitivo da Rimini, da tutto il fatiscente e sempre contagioso teatrino riminese (…). Soprattutto Amarcord voleva essere l’addio a una certa stagione della vita, quell’inguaribile adolescenza che rischia di possederci per sempre, e con la quale io non ho ancora capito bene che si deve fare, se portarsela appresso fino alla fine, o archiviarla in qualche modo».
Dentro Amarcord c’è tanto, ben di più che i suoi personaggi/maschere tragicomici o le mere atmosfere felliniane, dentro a quel capolavoro c’è il suo mondo intimo, c’è la sua interpretazione della società italiana che restituisce attraverso un realismo che trascende in una favola farsesca. Nella miglior tradizione felliniana Amarcord è un addio sprezzante e un omaggio a Rimini e alla rimininesità, che nello stesso momento viene presa a paradigma della provincia italiana.
Troppo spesso questa estrema complessità e intima sensibilità è stata banalizzata, non capita, trivializzata; fa orrore vedere ridotto a baraccone il circo di Fellini, le sue maschere umane diventare veri e propri pagliacci senza senso, da discount teatrale usate per intrattenere i passanti. Forse Fellini aveva capito meglio di tutti i vizi e le virtù dei Riminesi, le loro complessità, le loro contraddizioni e ipocrisie, e per questo li fustigava; anche l’amico Titta Benzi, ispiratore del personaggio principale ha timore di finire nelle sue mani.
Amarcord è un film estremamente politico, ma non in senso classico, in esso c’è una critica feroce al fascismo, considerato come una nebbia che stordisce e assopisce le coscienze: accanto alle serate di gala al Grand Hotel, al passaggio del Rex e all’arrivo del re e degli sceicchi, a Rimini c’è la violenza fascista che non esita a colpire con ferocia i suoi concittadini.
Riminizzazione
Fellini non si è più riconosciuto nella Rimini del post guerra, cancellata dalle esperienze romane e dal secondo conflitto mondiale; partì nel 1938 e ci ritornò nel 1946, ma le rimozioni più importanti sono quelle derivanti dalle varie evoluzioni del turismo che cancella la sua città fanciullesca.
Nell’immediato dopoguerra l’esplosione di questo fenomeno travolge i riminesi, portandoli verso un nutrito benessere ma allo stesso tempo li ha allontanata da quelle tradizioni più caratteristiche. Il turismo è diventato onnipresente e onnipotente, tutta società e la vita cittadina dovevano essere declinati ad esso.
Riminizzazione e divertimentificio, sono neologismi creati per la città adriatica, che hanno invaso il panorama nazionale, un mondo sintetico e lontano dalla Rimini felliniana degli anni Venti e Trenta. Infatti Fellini, non per Amarcord ma per i Vitelloni arriverà a dire che «A Ostia ho girato I vitelloni perché una Rimini inventata è più Rimini della vera Rimini. È il mio paese, quasi pulito, nettato degli umori viscerali, è una ricostruzione scenografica del paese della memoria».
Il ricordo della città
Per anni, dopo la morte di Fellini, la città, per lo meno in forma ufficiale, ha cercato di ricordare il suo illustre cittadino, ma questo non gli è sempre riuscito: la fondazione a lui intitolata che ne doveva tutelare e promuovere l’arte e la memoria, è naufragata in maniera non molto onorevole, soprattutto senza riuscire a legare stabilmente Fellini ai riminesi.
Il suo ultimo direttore il semiologo Paolo Fabbri faceva notare che Fellini era più valorizzato all’estero che in Italia, in particolare a Rimini: «Le iniziative continuano a essere poco originali e troppo legate al contesto locale. Si invita la nipote perché racconti i soliti aneddoti, si ingaggiano band e artisti del posto, si programmano film nella piccola cineteca del Comune. Questo è strapaese, campanilismo puro».
Negli ultimi anni il legame è ulteriormente cambiato, l’amministrazione di Rimini ha investito fortemente sulla figura di Fellini e su tutto l’immaginario che si porta dietro. Questo nuovo rapporto è teso a valorizzare l’immagine del suo illustre concittadino ma anche ad utilizzare il suo valore di brand internazionale. Per esplicita volontà del comune di Rimini si è fellinizzata una parte importante del centro storico della città.
Si è creato un museo Fellini, una delle sue piazze principali è stata arredata ispirandosi all’arte felliniana, il cinema Fulgor, ovvero il luogo dove il cineasta si è innamorato della settima arte è stato restaurato per ospitare una rinnovata sala cinematografica e il suo centro di documentazione.
Oggi la figura di Fellini è diventata centrare nella nuova immagine che cerca di darsi Rimini, non più solo mare, discoteche e vita notturna ma oggi cultura, anche per questo Rimini è candidata ad essere Capitale della Cultura 2026: una cosa impensabile fino a qualche tempo fa.
Difficile dire se il regista sarebbe stato contento di questa deriva della sua città d’origine, anche se qualche indizio sulle sue sensibilità ce lo ha lasciato, come quando rifiutò la laurea honoris causa dell’università di Bologna («mi sento come Pinocchio decorato dal preside e dai carabinieri per essersi divertito nel Paese dei Balocchi») o quando commentò in maniera ironica il fatto che che da grande avesse fatto “l’aggettivo” («mio padre voleva che facessi l’ingegnere, mia madre il vescovo, e io sono diventato un aggettivo»).
Rispettare la memoria del regista non è sicuramente cosa da poco, perché è facile scendere nella retorica, nella banalizzazione e nella piaggeria quando si incontra un personaggio così grande e complesso. Amarcord, mi ricordo in dialetto, deve diventare un esercizio concreto di memoria, affinché i riminesi e con loro tutti gli amanti del cineasta possano ancorarsi alla lezione che con esso ci ha dato, essere trasparenti e non prendersi troppo sul serio.
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