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«Io credo che le epoche si chiudono così, all'improvviso», diceva Marcello Mastroianni ne La Terrazza di Ettore Scola. L'epoca di Raffaella si è chiusa così, all'improvviso, come i grandi amori e i grandi film.
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Quale star nel secolo del Sono-come-voi non si giocherebbe davanti a qualunque microfono o diretta social la carta dell’abbandono paterno, della famiglia matriarcale, dei figli che non sono venuti?
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Il futuro a forma di Raffaella è diventato il nostro presente, scomposto e riadattato. La davamo per scontata, prima che anche la sua epoca si chiudesse. E prima che capissimo che diventare la più amata da tutti è la cosa più difficile del mondo anche se hai milioni di like.
«Io credo che le epoche si chiudono così, all’improvviso», diceva Marcello Mastroianni ne La Terrazza di Ettore Scola: il capolavoro che nel 1980 chiudeva non così all’improvviso l’epoca della commedia all’italiana, vent’anni e passa di storie che sembravano tutte facili e immediate e formulaiche, e che solo dopo avremmo scoperto essere combinazioni irripetibili di talento, grazia, entusiasmo e spirito del tempo.
L’epoca di Raffaella si è chiusa così, all’improvviso, come i grandi amori e i grandi film che sembravano sempre così facili e spontanei, sempre diversi e sempre uguali, e invece erano tanta parte di quello che avevamo e di quello che sapevamo di noi, e non si ripeteranno mai più con la stessa perfezione.
Mai dare spiegazioni
Raffaella I di Bologna, regina della televisione e dell’immaginario, quindi d’Italia, se n’è andata all’improvviso in un pomeriggio d’estate rispettando fino alla fine l’etichetta reale che si era imposta durante il suo lungo regno spensierato: mai lamentarsi, mai dare spiegazioni, restare sempre uguale alla sua icona, come le colleghe coronate sui francobolli e sulle banconote inglesi o spagnole.
«Più applaudita di Sandro Pertini, più costosa di Michel Platini, più miracolosa di Padre Pio», l’aveva definita L’Espresso nel 1984, negli anni gloriosi di Pronto, Raffaella?, dell’idea rivoluzionaria di fare un programma tv a mezzogiorno, delle telefonate da casa per indovinare il numero di fagioli ma anche per sfogarsi e trovare conforto, sicuri della comprensione della padrona di casa che restituiva la parola ai bambini problematici e convinceva gli adolescenti scappati da casa a farvi ritorno. In pratica una versione affettuosa e familiare dei telefoni aperti di Radio Radicale, che negli stessi anni davano voce senza censura ai problemi e alla follia degli ascoltatori.
Perché la missione della Carrà è sempre stata questa: interpretare con finta naturalezza lo scarto tra passato e presente, far intravedere il futuro e renderlo accettabile. Anzi, irresistibile: come le sue canzoni, le sue coreografie, il caschetto biondo e l’ombelico nudo, la risata aperta e la frustata del collo, i suoi inni all’erotismo e al vitalismo negli anni del piombo e delle bombe, nell’Italia degli scontri di piazza e delle battaglie per il divorzio e l’aborto, nella Spagna col cadavere di Franco ancora caldo.
Futuro a forma di Raffaella
Il futuro a forma di Raffaella è diventato il nostro presente, scomposto e riadattato, riletto e reinterpretato, stampa un po’ sbiadita della matrice perduta ma sempre presente. Perché la Carrà è stata come Lucio Battisti, come Franco Battiato, come il Portobello di Enzo Tortora: un catalogo inesauribile di idee da saccheggiare e rimaneggiare, nate in anni in cui non ci si tormentava ancora con la menata de “l’alto e il basso” e delle nicchie, ma semplicemente si creavano cose belle che piacevano a tutti, o così ben fatte che finivano per piacere anche a chi prima storceva la bocca, e inaspettatamente rimanevano nella memoria e poi nel dna.
Raffaella è stata la prima influencer, quando il Canale nazionale era pervasivo più di Instagram e il messaggio positivo non serviva a vendere ciabatte e smalti con la scusa della battaglia di civiltà contro i pregiudizi, il patriarcato, il body shaming. Quando il messaggio positivo non aveva bisogno di hashtag e sponsor, e non era la foglia di fico per nascondere la mancanza di talento e creatività per vincere facile col ricatto emotivo: il messaggio era una giovane donna molto bella e molto spiritosa che sapeva fare tutto e bene, o che riusciva a farci credere di saper fare tutto e bene con una tigna e una volontà di ferro che la fecero sembrare subito brava come Nino Taranto, come Corrado, come Mina, fino a diventare prestissimo «brava come la Carrà».
Alla quale bastava sfiorare e farsi sfiorare in un balletto all’epoca scandaloso, cantare la voglia di amore e avventura quando e come e con chi sceglieva lei, muovere quel corpo perfetto capace di ipnotizzare uomini, donne e Topo Gigio in egual misura, troppo sfrenato per essere soltanto banalmente sexy, troppo libero e inafferrabile per renderla una semplice pin-up. E tutto questo (era tantissimo, anche se sembrava solo varietà) bastava ogni volta a spostare la norma un po’ più in là, come faceva Raffaella quando cadeva il mondo. Senza proclami, senza rivendicazioni, senza bandiere: che una bolognese del 1943 votasse comunista era prevedibile, ma lo confidava solo ai giornali spagnoli, e quando Minoli le chiese cosa pensasse del femminismo storico lo definì «Molto violento, una esasperazione di un momento», sapendo benissimo di aver fatto a modo suo la rivoluzione migliore: quella che si può ballare, come sognava l’anarchica Emma Goldman. La rivoluzione che non ti lascia il tempo per manifestare e protestare perché sei troppo impegnata a guadagnare e decidere come un uomo, come Pippo, Mike, Corrado.
Persino la bandiera con la quale è stata più ammantata, quella arcobaleno, è stata un traguardo ottenuto facendo apparentemente altro, cantando amori omosessuali con la stessa imperturbabile allegria di quelli etero, interpretando la drag di sé stessa, sorridendo di ogni ostacolo e delusione per scacciare i brutti pensieri: e tutto questo negli anni senza quote inclusive, molto prima che anche l’ultima delle coriste si affannasse a definirsi queer per assicurarsi quella fedele fetta di mercato («Sono diventata un’icona gay non facendo nulla», disse al Pride di Madrid del 2017, l’unico cui mai abbia partecipato). E oggi c’è chi crede che la sua morte possa fare per il Ddl Zan quello che la morte di Judy Garland fece per i gay degli anni Sessanta, uno sconvolgimento emotivo che portò ai moti di Stonewall: niente male, per una che non ha fatto nulla e però ha fatto la rivoluzione.
Mancanza di eredi
Una rivoluzione, e questo oggi appare fantascientifico, senza lagne e confessioni e “la mia verità” raccontata su ogni copertina e in ogni salotto: è incredibile pensare, di uno dei personaggi più famosi del Ventesimo secolo, quanto poco sappiamo della vita privata di Raffaella Carrà, di cui pochissimo sappiamo anche della morte, pare causata dalle amatissime sigarette (quante foto della Carrà con la sigaretta avete visto in mezzo secolo? Praticamente nessuna: è il controllo-immagine delle professioniste).
Forse anche per questo non si vedono all’orizzonte possibili eredi: quale star nel secolo del Sono-come-voi non si giocherebbe davanti a qualunque microfono o diretta social la carta dell’abbandono paterno, della famiglia matriarcale, dei figli che non sono venuti? Assi che la Carrà ha calato pochissimo all’apice della carriera, e che ha ricordato in interviste celebrative a 75 anni. L’unico sfogo privato, in diretta a Domenica In nel 1986 contro un giornale che l’accusava di aver abbandonato in clinica sua madre, fece gridare all’uso improprio del mezzo pubblico.
Era prima che l’uso improprio della tv diventasse l’uso auspicato, era prima della tv della lacrima, che pure Raffaella ha imposto quando i balletti e i fagioli non bastarono più a riempire i palinsesti. Ma Raffaella ci faceva piangere quando le lacrime non diventavano un meme usato per fare gli spiritosi sui social, quando i parenti all’altro capo del mondo non li vedevi su Zoom, quando per esaudire un sogno non bastava aprire una raccolta fondi su GoFundMe.
Come di ogni cosa abbia fatto, anche di questa Carrà lacrimante sono rimaste tracce nel presente: c’è tutto, tranne il calore o l’arte di fare cose incredibili con sprezzatura. C’è la Carrà nelle agnizioni e negli abbracci di C’è Posta per Te, ma meccanizzati dall’infallibile automa De Filippi, più microscopio che madonna pellegrina. C’è la Carrà nelle interviste di Barbara D’Urso, anche se la prima incontrava Madre Teresa e Henry Kissinger, la seconda Angela da Mondello e il rosario di Salvini. C’è la Carrà in Ballando con le Stelle, ma senza lo squilibrio malizioso delle coreografie vestite da suora in reggicalze o col passamontagna sulla tuta di lustrini. C’è la Carrà dappertutto, fuori e dentro la televisione: la davamo per scontata, prima che anche la sua epoca si chiudesse così, all’improvviso. E prima che capissimo che diventare la più amata da tutte è la cosa più difficile del mondo, anche se hai milioni di like.
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