«Che fareste se io mi suicidassi?» chiede Fabio Traversa nei panni di Mirko, uno dei protagonisti di Ecce Bombo. Dopo qualche secondo di silenzio, attorno a lui parte un applauso, «Bravo!», urla Nanni Moretti. Sono giovani romani annoiati, in una calda estate degli anni Settanta, si ritrovano per fumare sigarette e fare gruppi di autocoscienza, eredità inevitabile di un sessantottismo che ormai ha fatto il giro: «vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose». Degli anni Settanta, molte cose – forse le migliori, tipo le lotte per i diritti sociali e le conquiste civili – sono passate di moda, mentre l’idea che mettersi in gruppo a parlare dei propri problemi personali sia un buon modo per risolverli, in particolare quelli sentimentali, stranamente no. E così, se nel 1978 c’erano i protagonisti di Ecce Bombo a fare autocoscienza, nel 2024 vediamo uomini e donne di estrazione sociale variegata e provenienza disparata che, in cerchio e aspettando ciascuno il proprio turno, scelgono di andare su Rai 2 a raccontare i fatti loro a Luca Barbareschi.

I panni sporchi

Sulla carta l’idea è così bislacca da poter sembrare geniale; nella realtà è molto lontana dall’esserlo. Eppure, Se mi lasci non vale, format con cui l’attore estende la sua presenza nel palinsesto della tv pubblica, dopo l'irriverente talk contro niente di meno che il politicamente corretto, In barba a tutto, ha qualcosa di audace per la routine Rai: le coppie in crisi, il set di villeggiatura, le esperienze matte con cui mettersi alla prova per evadere dalla quotidianità, gli immancabili droni. E poi, chiaramente, Luca Barbareschi stesso, che per ben cinque anni ha condotto C’eravamo tanto amati su Rete 4, programma cult del genere che vanta niente di meno che un Telegatto, oltre che la firma diabolica di Fatma Ruffini. In quel caso, nella televisione sgargiante degli anni d’oro Fininvest, la materia umana strabordava senza troppe premure verso i principi della terapia di coppia o di altre sensibilità contemporanee, con confronti litigiosi e ruspanti tra mariti e mogli che non vedevano l’ora di lanciarsi gli stracci in televisione, perché i panni sporchi è bene lavarli in casa, ma se si possono lavare in casa del Biscione ancora meglio.

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L’emulazione fallita

Il Barbareschi che si faceva bandire da Mediaset per gli scherzi a Mike Bongiorno però è diventato il Barbareschi che si commuove alle parole di Selvaggia Lucarelli dopo aver danzato a Ballando con le stelle, la sospensione dell’incredulità degli spettatori nei confronti del mezzo televisivo in trent’anni è cambiata parecchio, e il risultato del programma, in termini di ascolti, è stato un’altra occasione per domandarci che rumore fa un albero che cade in una foresta, in questo caso nella foresta dei dati Auditel – nessuno. Se mi lasci non vale, infatti, è ciò che viene comunemente detto un flop, non solo perché, a conti fatti, è stato cancellato ben prima della data prevista. Il format condotto da Barbareschi è un flop perché, e qui tocca come sempre citare la formula immortale di Tommaso Labranca, è un’emulazione fallita.

Temptation Island

A chi infatti sostiene che Temptation Island sia un programma trash bisognerebbe far vedere dieci minuti di Se mi lasci non vale. Per essere più precisi, mettendo da parte l’idea di base, ossia la crisi di una coppia, che di per sé non se l’è inventata Temptation Island, il programma di Barbareschi – da lui stesso ripudiato ai microfoni di Un giorno da pecora – cade nella trappola del kitsch, ossia in quel tentativo di ripulire dalle sue brutture un prodotto che proprio delle sue scorie morali fa la sua forza. La grande missione, se così vogliamo chiamarla, di un programma come Temptation Island non è quella di mostrarci davvero come si risolvono problemi di coppia in coppie che, solitamente, non hanno gli strumenti culturali per risolverli. Il viaggio nei sentimenti ci mostra solo il racconto di tutto ciò che di più catartico possa prendere vita in un universo parallelo in cui è possibile osservare il proprio partner mentre si fa sedurre da maschi muscolosi e femmine prosperose pagati per «tentare». Chi chiede l’intervento di un terapeuta, o peggio ancora, chi chiede a Filippo Bisciglia di svolgere questo ruolo, non ha capito nulla del format di punta della scuderia defilippiana. Temptation vive e funziona proprio perché raccoglie le emozioni inquietanti che gli spettatori sperano di non vivere mai in prima persona.

Un viaggio nella penitenza

Nel villaggio di Se mi lasci non vale, al contrario che nel pinnettu e ai falò di confronto, tutto avviene in modo sgonfio e ripetitivo. Le coppie in gioco non si separano mai, e di fatto le uniche turbolenze narrative che incontriamo nell’«esperimento sociale», così viene definito a più riprese da Barbareschi, sono i litigi stanchi di persone che litigano già tutti i giorni, con l’aggiunta di situazioni grottesche come la riproduzione di una scena di Eyes Wide Shut o la presenza di una serie di figure più o meno professionali come la terapeuta di coppia, la love coach, la soul coach – questa forse la figura più enigmatica, ma un po’ di Oriente e di meditazione sotto i fumi dell’incenso non guastano mai – e Rocco Siffredi. Chiunque sia stato in una vacanza di gruppo con una coppia in procinto di lasciarsi sa quanto può essere sfibrante avere a che fare con una presenza simile all’interno della villeggiatura, e nel format di Rai 2 ormai archiviato, questa esperienza è moltiplicata per sei; più che un viaggio nei sentimenti, un viaggio nella penitenza.

La community

Ma il flop di Se mi lasci non vale, oltre a dare una lezione a tutti quelli che pensano che mettere in piedi programmi come Temptation Island e far fare loro il 30% di share sia una passeggiata, ci insegna anche un’altra grande lezione sulla contemporaneità della televisione. L’analisi della sconfitta, per quanto si debba focalizzare principalmente sul contenuto, non può prescindere dal contenitore, che in questo caso è Rai 2, inserita in un contesto più ampio che è quello della presunta o reale Telemeloni. Seppure chi di dovere neghi l’esistenza di un progetto egemonico, la presenza di conduttori che dovrebbero attuare il «cambio di narrazione» nella televisione pubblica non sta andando come sperato, se consideriamo anche la chiusura per bassi ascolti di L’altra Italia e il malcontento generato da Pino Insegno. In tutto ciò, oltre alla seconda rete che perde di anno in anno la sua identità, diventando solo un laboratorio di tentativi finiti male, i flop di questo tipo dimostrano che la televisione oggi è fatta di community più che da spettatori. Così come Amadeus non ha trainato sul Nove perché la community era di Affari tuoi e Fazio invece ha trainato perché la sua, invece, era fedele a lui e non al format, è ingenuo pensare che basti mettere tradimenti, litigi e coppie veraci per trascinare la fedelissima schiera di affezionati a Canale 5, che là restano e non hanno alcun motivo di spostarsi. Neanche sulle note di Julio Iglesias, che, come i gruppi di autocoscienza, forse è meglio lasciare negli anni Settanta.

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