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Un uomo, uno dei numeri uno della storia della filosofia, potrebbe legare oggi due città e due tempi storici decisamente lontani fra loro: la Amsterdam di uno sfolgorante XVII secolo, e la Gerusalemme sconvolta di queste ultime settimane.
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Baruch Spinoza è l’anello che collega la libera Amsterdam del Seicento alla Gerusalemme ferita di oggi. Il filosofo fu espulso per tesi eterodosse dalle quali discende l’idea del ruolo storico, e non elettivo, di Israele.
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Bento è un buon cittadino, lo resterà fino alla morte, a 44 anni, ma non ce la fa a restare nella norma, in particolare quella della tradizione e della dottrina ebraica, che peraltro conosce alla perfezione.
Un uomo, uno dei numeri uno della storia della filosofia, potrebbe legare oggi due città e due tempi storici decisamente lontani fra loro: la Amsterdam di uno sfolgorante XVII secolo, e la Gerusalemme sconvolta di queste ultime settimane. Lui, olandese, è un giovane poliglotta che parla dalla nascita spagnolo, portoghese ed ebraico, e che imparerà, scrivendolo, il latino, e poi il greco, e il francese. Si chiama Bento d’Espinoza, o anche Baruch Spinoza, di buona famiglia mercantile ed ebraica (ex marrani del Portogallo), orfano dei genitori, già allievo modello della scuola rabbinica Etz Haim. Un carattere gentile, con il culto dell’amicizia e della conversazione che esce volentieri dal quartiere ebraico dell’Houtgracht, e parla con tutti, ebrei e non ebrei.
A 24 anni, senza aver scritto una riga di quello che pensa, scambia con i suoi interlocutori gli argomenti che gli stanno a cuore: Dio, la natura, la libertà, la politica, lo stato, le religioni, le superstizioni. Detto semplicemente, un vaste programme, anche se il punto, per il giovane Bento, è tenere bene la mente aperta, anche a costo di apparire eterodosso. Da ricordare che vive nel paese più libero dell’epoca, una repubblica, quelle Provincie Unite – oggi diciamo Olanda – che già nel 1613 stabiliscono che ognuno può proclamare in pubblico la propria fede, a patto di rispettare le leggi dello stato, federale e calvinista, e di non sbandierare anticonformismi di vario genere. Bento è un buon cittadino, lo resterà fino alla morte, a 44 anni, ma non ce la fa a restare nella norma, in particolare quella della tradizione e della dottrina ebraica, che peraltro conosce alla perfezione. Un eterodosso: che cosa significa per lui? Il termine oggi è molto meno usato del suo contrario, cioè ortodosso, riferito esattamente al cristianesimo orientale, ma anche agli ebrei molto osservanti e declinati nelle loro varie versioni comunitarie.
Nell’Israele di oggi – di guerra esterna, interna, e di tregue precarie – un certo tipo di ortodossi, anche quelli più estremi, siedono in parlamento, impiantano colonie in territorio arabo-cisgiordano che chiamano Giudea e Samaria, hanno ministri nel governo nazionale, e anche squadre private di intimidazione: se Bento d’Espinoza fosse capitato, poco tempo fa, nella parte orientale di Gerusalemme le avrebbe viste all’opera, quelle squadre. E le loro parole d’ordine gli avrebbero ricordato qualcosa che a lui, ebreo eterodosso, era già sembrato fuori logica: la mano di Dio nell’assegnare quelle terre al popolo d’Israele, e nell’ispirare i testi “sacri” che giustificavano quel possesso esclusivo.
Ai suoi tempi, e continuando a chiacchierare con amici e interlocutori che non smettevano di ammirarlo, Bento, o Benedictus, o Benedikt, come ormai si faceva chiamare, avrebbe scritto: «La Scrittura mira non già a convincere razionalmente, ma a dominare l’immaginazione degli uomini». Molto laica, come petizione di principio, ma anche molto illuminante, nell’Israele di oggi, sul «dominio dell’immaginazione» e sugli esiti da cul-de-sac che ne possono derivare.
Se ci si pensa d’acchito, quel giovane ebreo portoghese-olandese, buon cittadino e convinto repubblicano, non smette di pensare a sé stesso dentro la storia, la sua, insieme a quella degli uomini liberi che, solo loro, «sono gratissimi gli uni agli altri», come scriverà. Quanto al popolo ebraico, osserva che «esiste indipendentemente dalla tradizione religiosa» che «il suo ruolo è storico e non si giustifica per elezione divina». Un’idea base che era in fondo la stessa del vecchio Ben Gurion, il padre fondatore dello stato (nonché appassionato di Spinoza), e ancora condivisa, per fortuna, da un bel po’ di cittadine e cittadini d’Israele. Certo, un qualsiasi ortodosso, magari armato e spuntato da uno qualsiasi di quegli insediamenti cisgiordani, non apprezzerebbe. Come ai suoi tempi, non aveva affatto apprezzato la comunità ebraica, rigorosamente ispano-portoghese, della libera città di Amsterdam.
L’espulsione
Era il 27 luglio 1656, e il Consiglio, o Mahmad, dei maggiorenti leggeva il cherem, cioè l’atto d’espulsione dalla comunità del ventiquattrenne Bento d’Espinoza. Termini durissimi, con maledizioni ripetute, tutto scritto in spagnolo. Va ripetuto che Bento, non aveva ancora messo per iscritto nulla, ma solo parlato, senza tirare via, con amici, conoscenti, stranieri di passaggio. Il nucleo delle sue idee eterodosse è più che noto: chiamava Dio “sostanza infinita” identico alla Natura negando al “sacro” una personalità paterna, giuridica o creatrice, contestava a Mosé il diritto d’autore dei primi cinque libri della scrittura, affermava che l’anima individuale muore con il corpo.
Niente di strettamente politico, per ora, ma ce n’era abbastanza per una sfilza di reati d’opinione, con un nucleo accusatorio di ateismo. Oggi, la Corte suprema d’Israele (un corpo ancora laico e per questo molto bersagliato dalla destra politica e religiosa) non solo non gli farebbe le pulci, ma potrebbe addirittura accoglierlo fra i suoi e le sue componenti. Se non altro per la sottigliezza e il rispetto istituzionale con cui Bento commentava la sua espulsione: «Meglio così: non mi costringono a fare nulla che non avrei fatto di mia spontanea volontà se non avessi temuto lo scandalo. Dato che è questo che vogliono, imbocco volentieri la strada che si apre davanti con la consolazione che la mia partenza è ancora più innocente dell’esodo dei primi ebrei dall’Egitto».
Mica male come ribaltamento di posizioni: gli altri, che erano i miei, mi espellono nel ruolo degli antichi egizi, ed io, ebreo senza reato, cioè innocente, me ne vado verso la mia libertà. Da notare che mai, nella sua breve vita, Bento d’Espinoza userà l’espulsione, a suo modo un dramma, come giustificazione per quello che avrebbe fatto o scritto. Una posizione che oggi, a Gerusalemme, come a Gaza o nel territorio cisgiordano, dovrebbe essere d’attualità. O anche oggetto di un dibattito il più eterodosso possibile. Recentemente, nel corso di un convegno internazionale, il rabbino israeliano di origine francese Daniel Epstein (studioso di Emmanuel Levinas ed ex enfant caché durante l’occupazione tedesca) ha parlato del fondamentale passaggio dal «vittimismo al senso di responsabilità».
Scrittura laica
Ma tornando al filo immaginario fra Amsterdam e Gerusalemme va detto che Bento avrebbe scritto in latino la sua unica opera pubblicata in vita, e cioè il Trattato teologico-politico, un capolavoro del pensiero oltre che di chiarezza. Nella sostanza un’esegesi delle Scritture in chiave logica, o, diremmo oggi, laica. Bento non ha ambizioni profetiche perché è un gran ragionatore, e in più conosce bene la storia, le sue mitologie e come decostruirle.
Il posto di uno stato ebraico storico è centrale, e lui si mette a ragionare sugli antichi regni di Giuda e di Israele, raccontati nelle Scritture, e a quel tempo unici prototipi possibili d’indagine. Scrive: «Se volessimo considerare i periodi in cui gli ebrei ebbero la possibilità di una pace completa, troveremo questa grandissima differenza: prima del periodo monarchico essi trascorsero in concordia, senza guerre esterne o interne spesso 40 anni e una volta persino 80 anni(…); dopo l’avvento del regime monarchico, invece, poiché non si trattava più di lottare per la libertà e per la pace, ma per la gloria, leggiamo che tutti i re fecero guerre a eccezione del solo Salomone la cui virtù, cioè la saggezza poteva meglio affermarsi in pace che in guerra (…).
Si aggiunga poi la funesta brama del regno che, nella maggior parte dei casi, insanguinò la strada al trono. E infine si consideri che fin tanto che il popolo fu sovrano, le leggi restarono incorrotte e furono oggetto di costante osservanza». Un pugno di informazioni, ma impressionanti, lette idealmente da Gerusalemme, oggi, e un insieme di scelte o di bivi: lottare per la libertà e per la pace (e non per la gloria), senza guerre esterne o interne, senza poteri monarchici (senza un primo ministro inamovibile), senza funeste brame (territori, insediamenti ecc.), con un popolo sovrano e leggi incorrotte. Resta quel massimo di esistenza storica, calcolato in ottant’anni. Bento d’Espinoza non aveva l’attitudine del profeta, ma quella cifra è forse un razionale avvertimento.
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