Vent’anni di autonomia nell’organizzazione del lavoro nella scuola non hanno prodotto cambiamenti significativi. II modello ideato dai tecnocrati “progressisti”, centrato sulla concorrenza e sulla competizione, ora si fonde con quello dei conservatori tradizionalisti. A riprova che il liberismo può anche essere autoritario
Che cos’è la scuola? La scuola è un servizio (“pubblico”, dunque non soggetto a logiche privatistiche) ma è anche un’istituzione. L’istituzione è qualcosa di più di un servizio, è una realtà che gode di particolare tutela essendo depositaria di valori fondanti la società e la convivenza civile. Il suo valore consiste nella sua fedeltà ad alcuni principi: costruzione della cittadinanza, della capacità di vivere insieme anche tra diversi contribuendo così alla coesione sociale e in generale alla vita di relazione, riduzione delle disuguaglianze negli apprendimenti, formazione del pensiero attraverso un rapporto autentico con i saperi più che con i loro contenuti.
In quanto istituzione, questi principi fondanti, che hanno a che fare con la democrazia non appartengono ai singoli utenti ma a tutta la collettività. Nel momento in cui il soggetto cessa di essere considerato membro o cittadino di una società politica ma viene percepito solo come lavoratore o consumatore, l’istruzione perde di importanza perché viene subordinata solo all’attività produttiva e allo sviluppo del benessere economico (Alain Touraine, 1998, Libertà, uguaglianza, diversità). Oggi i temi di cui si discute sempre di più non riguardano i principi della scuola ma la sua utilità. Questa tendenza, che si è affermata negli anni novanta, ha condizionato fin dall’inizio la riforma dell’autonomia scolastica, con gli esiti che vediamo oggi.
Che cosa è successo in questi anni che ci separano dalla prima realizzazione dell’autonomia? Il sovrasistema è stato lasciato sostanzialmente intatto con le sue storture (con un surplus di ingerenza del potere politico nelle nomine dirigenziali). Non è stata promossa né sostenuta l’autonomia didattica e pedagogica (art. 4.2. del Regolamento dell’autonomia), ovvero la più importante, perché avrebbe potuto portare a un cambiamento della tradizionale “forma scolastica” e del modo di vivere a scuola.
Alle scuole, poi, sono state concesse meno risorse fisse mentre contemporaneamente sono stati ridotti i vincoli per ottenerle da altre fonti. Ora è previsto un consistente finanziamento nell’ambito del Piano scuola 4.0 ma, non a caso, è prevalentemente orientato all’acquisto di dotazioni tecnologiche per formare le “professioni del futuro”. In questo modo viene così concesso un indebito vantaggio alle zone più ricche del Paese senza introdurre forme di compensazione per la aree deboli, come è stato fatto in Francia con le Zones Education prioritaire (ZEP). È stata poi indebolita la zonizzazione anche nelle scuole di base mettendo così in moto un processo di competizione tra scuole.
La logica è evidente e risponde sostanzialmente a un modello molto diffuso nel mondo: una scuola gestita con logiche manageriali che, grazie alla competizione con le altre, dovrebbe riuscire a migliorare il “servizio”. Passando dall’obbligo dei mezzi all’obbligo dei risultati abbiamo dunque assistito a un cambiamento generale della logica di governo del sistema. Ci si focalizza sul “prodotto” pilotando le scuole ma lasciandole sole nella scelta dei mezzi, con la sostanziale rinuncia dello Stato a molti aspetti importanti di regolazione, come la formazione in servizio degli insegnanti.
L’idea del modello è semplice: attraverso un controllo dall’alto e un controllo dal basso si porterebbero le scuole a migliori risultati. Ma siamo certi che accada questo? Siamo sicuri che i “clienti” vogliano una scuola migliore? Siamo certi che la logica della concorrenza sia una buona scelta? Le scuole sono indotte a migliorare i loro risultati. Ma quali? Non è affatto certo.
È funzionale a questa logica l’assenza di un sistema pubblico di formazione in servizio degli insegnanti. Ci si limita ad offrire loro un bonus: la Carta del docente. Si danno, cioè, un po’ di soldi agli insegnanti perché si vadano a formare presso Associazioni riconosciute o comprando materiale utile (libri, computer, ecc.). Dal 2015 al 2022 allo Stato il bonus è costato 381,137 milioni di euro ogni anno. Ora il bonus è stato in parte ridotto, ma non eliminato. Con quei soldi si potrebbe fare qualcosa di meglio, ad esempio cominciare a ricostituire un sistema pubblico di formazione che, dopo la soppressione degli Irrsae, sostenga le scuole sia sul piano organizzativo che didattico. Nel tempo ci si è accorti dei gravi rischi derivanti dall’assenza di una formazione in servizio organizzata da Istituzioni pubbliche. Per questo è nata una Scuola di alta formazione che è solo alle prime battute. Il suo presidente è Giuseppe Bertagna, il pedagogista vicino alla destra che era già stato consulente della ministra Letizia Moratti vent’anni fa. Su Domani ne ha fatto un ampio ritratto Michele Dal Lago.
Questo è il quadro, in sintesi. Il problema è che, oltretutto, questo modello non funziona; dopo più di vent’anni di autonomia l’organizzazione del lavoro nella scuola è infatti sostanzialmente ancora quella del passato: corsi suddivisi in tappe annuali, ciascuna con un suo programma; organizzazione per gruppi-classe omogenei per età con allievi che seguono lo stesso programma; un orario fissato in una griglia che assegna a ogni settimana un tempo fisso per ogni disciplina con prevalenza dell’insegnamento frontale (soprattutto nelle scuole secondarie); prevalenza della valutazione sommativa e certificativa sulla valutazione formativa.
II modello ideato dai tecnocrati “progressisti” molti anni fa, centrato sulla concorrenza, si fonde così con quello dei conservatori tradizionalisti (a riprova che il liberismo può anche essere autoritario). Se si volesse veramente far crescere tutti riducendo le disuguaglianze di apprendimento si dovrebbe seguire la via indicata dalla ricerca educativa internazionale: differenziare gli interventi pedagogici grazie a una diversa organizzazione del lavoro e un altro modo di preparare e valutare le “situazioni di apprendimento” (situazioni, più che lezioni o “unità didattiche”).
Vogliamo finalmente pensare a un’autonomia che promuova un reale cambiamento mettendo in discussione le pratiche educative tradizionali e la complessa e disfunzionale struttura organizzativa delle scuole autonome come richiederebbero i problemi che abbiamo di fronte? I mezzi ci sono, gli esempi non mancano, ma sarebbe necessario cambiare la logica che ha guidato la riforma dell’autonomia fino a oggi, una logica che, temo, la destra al potere non vorrà di certo cambiare. Saprà la sinistra riflettere sugli errori del passato e affrontare un vero cambio di rotta?
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