Latte di soia, edamame, tofu, tempeh, salsa di soia, miso, natto (un tipo di fagioli di soia bolliti e fermentati, che si mangiano in Giappone con il riso, spesso a colazione), youba (la “panna” del latte di soia, quando viene bollito, che può essere mangiato sia fresco che essiccato e reidratato, in mille piatti diversi), furu (pezzetti di tofu fermentati in una particolare salamoia, una delle forme più tradizionali di “formaggio di soia”, utilizzato in Cina e, in versioni diverse, molti paesi del sud est asiatico, che può essere sia piccante che dolce, a seconda dei metodi utilizzati per fermentarlo).

Ma anche salsa ai fagioli di soia fermentati, comune in Thailandia, chiamata tao jiew, che impartisce livelli diversi di sapidità e gusto anche alle verdure meno saporite.

Oppure i fagioli di soia sotto sale cinesi, neri e saporitissimi, che si utilizzano per aggiungere una bomba umami nelle pietanze stufate o saltate, o il chou tofu, il tofu “puzzolente”, di nuovo cubetti di tofu che vengono fermentati in una salamoia fatta di diversi ingredienti (fra cui possono anche esserci pezzetti di carne o pesce). O l’indonesiano oncom, fatto con l’okara, la parola giapponese che descrive la parte solida dei fagioli di soia che rimane dopo la preparazione del tofu. In Giappone, questa viene usata mescolandola ad alghe hijiki, striscioline di carota, e pochi altri ingredienti a seconda di chi cucina, mentre in Indonesia viene lasciata fermentare pressandola con alcune spezie e poi tagliandola a strisce che vengono solitamente fatte friggere. 

Non dimentichiamo le varie salse jang coreane – gochujang, kanjang, doenjang per parlare solo delle più note anche fuori dalla Corea – sono tutte a base di soia.

Proteica e versatile

La lista non finisce qui, ed è possibile che renderla esaustiva sia di per sé un’impresa assurda: i fagioli di soia sono una fonte di nutrimento che si presta a variazioni innumerevoli, a seconda delle culture gastronomiche che la utilizzano. Non solo: il semplice tofu, in Asia, è disponibile in una quantità di versioni talmente diversa che bisognerebbe essere davvero annoiati per mettersi in testa di contarle. C’è quello morbidissimo, che a Hong Kong viene consumato come un dolce, aggiungendo zucchero di canna rosso o pezzetti di frutta freschi, o altre leccornie, una delle cose più rinfrescanti possibili durante le estati monsoniche. Leggermente più fermo, viene usato di nuovo come piatto freddo, e condito con salsa di soia, erba cipollina, olio di sesamo tostato, peperoncino e di nuovo una serie di ingredienti a scelta a seconda di chi lo prepara.

Poi ci sono i tipi di tofu morbidi (chiamati “seta”, in Giappone) o duri (“cotone”, sempre in Giappone) o quelli pressati a lungo, spesso con l’aggiunta di alcune spezie – particolarmente amati in Vietnam. E via dicendo.

Un fagiolo proteico, versatile, che in luoghi in cui è poco utilizzato (come l’Italia) ha una reputazione del tutto ingiustificata di essere un cibo blando – ma si tratta solo del tipo un po’ scadente, dal punto di vista gustativo, che è accessibile nei nostri supermercati. Quello che si trova da tempo – poco conosciuto in Asia ma abbastanza diffuso altrove – è un altro derivato della soia, che sono le TSP, ovvero, le proteine di soia testurizzate, che si vendono secche in vari formati, e che possono essere reidratate ed utilizzate in particolare come sostituti della carne, ed infatti, vengono vendute a pezzi che dovrebbero assomigliare allo spezzatino, oppure al manzo tritato, per fare hamburger o vari ragù.

La loro bontà è interamente nelle mani di chi li cucina, dato che la somiglianza col cartone bagnato, quando sono cotte male, è difficile da negare – e vanno dunque fatte reidratare e bollite in brodi molto gustosi, dato che assorbono bene i sapori, e, una volta in bocca, hanno effettivamente una certa somiglianza con la consistenza della carne.

La storia

Verrebbe da pensare che la soia sia parte integrante del profilo nutritivo delle diete asiatiche da millenni, ma questo è solo parzialmente vero. La pianta, glycine max (ne esistono più di 2500 varietà, diverse per colore, rotondezza e dimensioni, e ovviamente con qualche variazione anche di sapore), è originaria dell’Asia orientale, ed è sempre stata utilizzata in queste zone, ma è diventata davvero diffusa solo a partire dalla metà del 1700. La sua relativa rarità può essere vista come uno dei motivi per i quali ogni pezzettino del fagiolo di soia e dei suoi derivati veniva utilizzato con tanta passione, fermentandolo, trasformandolo in salse e in latte, e in tutto il resto che la fantasia umana riusciva ad escogitare.

Quando la Cina venne invasa dai mancesi, che fondarono la dinastia dei Qing (l’ultima dinastia imperiale prima della rivoluzione Repubblicana del 1911, iniziata nel 1636 nelle terre mancesi ancestrali, il nord-est della Cina odierno, ed estesasi poi, gradualmente, al resto del paese) la soia era relativamente poco diffusa anche fra i cinesi. La pianta infatti non cresceva così facilmente, e se ne riuscivano a produrre solo poche tonnellate l’anno, insufficienti a soddisfare la domanda. Solo con l’assestamento al potere dei Qing, sotto l’era dell’imperatore Qianlong (che regnò dal 1733 al 1799), la dinastia si sentì sufficientemente sicura di sé e del suo controllo dell’impero da consentire ai contadini cinesi di recarsi nelle loro terre ancestrali e coltivarle. Prima, queste erano considerate terre sacre alla casa imperiale, dove si trovavano gli spiriti degli antenati che poco avrebbero apprezzato le zappe dei sudditi imperiali. Assestatisi, e tranquilli del loro dominio, i Qing vollero evitare carestie che sarebbero potute emergere dall’importante crescita demografica che avvenne sotto di loro, e consentirono lo sviluppo agricolo del nord. Fu così che le estese pianure della Manciuria divennero il luogo in cui la soia cominciò a crescere in abbondanza, sviluppando dunque sempre più prodotti alimentari e nuove tradizioni. La situazione è cambiata con l’avanzare di nuove tecnologie agricole, ma ad oggi, in Cina, le terre del nord-est sono quelle in cui la soia cresce maggiormente. In altri luoghi, come a Taiwan, viene piantata una specie di soia con il fagiolo nero, considerata la più tradizionale di tutte, ma che cresce per l’appunto in scarse quantità date le sue esigenze: in generale la soia vuole un terriccio areato, grasso ed argilloso, ma non apprezza l’estrema umidità di Taiwan. Quella nera è per l’appunto un po’ meno pignola, ma la terra a disposizione per coltivarla rimane limitata.

L’Amazzonia

A questo punto, molti lettori staranno pensando: va bene il nord-est della Cina e le zone adatte del resto dell’Asia, ma non sappiamo tutti che per colpa della soia viene disboscata l’Amazzonia?

Vero. Ma non per il tofu in tutte le sue versioni, il tempeh, il latte di soia o le varie salse a base di soia. Qualche statistica poco nota: il 77 per cento della soia coltivata nel mondo, e la quasi totalità di quella coltivata in Sud America, viene utilizzata per produrre mangime per animali, in particolar modo per pollame e suini. Fra il 2005 e il 2017 (ultime statistiche disponibili), 90 mila ettari di foresta amazzonica sono stati spianati per coltivare soia da importare nell’Unione Europea, per nutrire gli animali, non gli umani – e non certo per produrre quei panetti di tofu che si trovano oggi in tutti i supermercati. Mangimi a base di soia sono utilizzati anche per nutrire i bovini d’allevamento, e per le coltivazioni di pesce. Ma non è nemmeno come se consumassimo il restante 23 per cento della soia sotto forma di cibo: solo il 6 per cento del totale dei fagioli di soia coltivati al mondo viene portato sulle nostre tavole, pur contando tutte le tipologie di prodotti alimentari fatti o derivati dalla soia. Negli Stati Uniti, per esempio, il 30-40 per cento del biodiesel utilizzato è prodotto con la soia. Ed appena il 3 per cento del totale della soia coltivata sul pianeta, infine, è usata per produrre olio di soia per utilizzo alimentare. Di tutti i disastri ecologici legati alle piantagioni di soia al mondo, dunque, possiamo incolpare davvero poco i divoratori di tofu ed edamame, dato che quel 10 per cento scarso che consumano per nutrirsi viene per lo più cresciuto nelle terre tradizionali della soia, in particolare dalla metà del diciottesimo secolo, che non avevano mai avuto il problema di nutrire miliardi di capi di bovini, suini, pollame, e pesce cresciuti industrialmente. Oggi che la Cina ha aumentato in maniera esponenziale il suo consumo di carne, arrivando a 46 chili pro capite l’anno – e diventando così il terzo paese per consumo di carne, dietro agli Stati Uniti e all’Australia (entrambi consumano più di 100 chili di carne all’anno, pro capite) – è anche diventata uno dei primi importatori di soia: di nuovo, non per il tofu, che continua a produrre soprattutto con la soia che cresce nelle terre aperte ai contadini cinesi dalla dinastia Qing, ma per mangime per gli animali.

Un modo di consumare le risorse planetarie che non sembra dei più razionali – ma del resto, noi umani da secoli diamo prova di irrazionalità nei confronti del pianeta e delle sue esigenze per garantire la nostra stessa sopravvivenza. La relazione che abbiamo con la soia è solo uno degli esempi più eclatanti.

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