Nella Milano del 1936 la morte di Luigi Bassetti, direttore editoriale antifascista di un’importante casa editrice apre una serie di congetture e ipotesi all’interno della società meneghina a cui un commissario di polizia dovrà dare risposta, prima di tutto a se stesso e alla propria morale. Veste così i panni da raffinato giallista e storico Gian Arturo Ferrari che in occasione della sua ultima fatica letteraria, La storia se ne frega dell’onore, Marsilio, sviluppa attorno a un’avvincente trama, densa di intrighi e doppi giochi, il racconto dell’Italia fascista dentro a cui però specchia quella di oggi con tutte le sue contraddizioni e conflitti.

Questo slittamento viene attuato da Ferrari attraverso il racconto di quelli che sono i meccanismi tipici – a tratti non poco oscuri e imperscrutabili – dell’editoria di allora alle prese con una censura fascista tipicamente ossessiva e nevrotica, non così troppo distante nello stile come anche nella sostanza da un atteggiamento quanto meno superficiale che caratterizza da sempre il potere e la sua gestione in Italia anche nel sistema democratico.

L’abilità di Gian Arturo Ferrari quando con le sue narrazioni frequenta gli ambiti editoriali è quella di chi conosce consapevolmente dall’interno come i meccanismi che dominano quei sistemi abbiano regole ferree e dinamiche tipicamente mutuabili negli anni: in dittatura come in democrazia.

Ferrari ricostruisce con precisione e solerzia il funzionamento di una casa editrice degli anni Trenta e lo fa sia rispetto alla sua obbligata relazione con il potere che nella sua ambizione di pubblicare libri, gesto sempre ostile ad ogni forma di controllo, anche di quello editoriale.

Dentro i meccanismi 

Questo è un movimento che vive fortune alterne e che richiede una sensibilità e una buona dose di realismo, qualità ben note all’autore che proprio nel suo precedente libro, Storia confidenziale dell'editoria italiana, sempre da Marsilio, ha offerto una chiara esposizione di cosa significa – fuori da ogni retorico romanticismo – fare editoria e farlo in Italia. Ovvero qualcosa che va molto vicino alla ben nota definizione di politica secondo Rino Formica.

Ed è forse proprio questo il punto più interessante di un giallo che contiene nel suo cuore un’indagine appassionante e capace di coinvolgere totalmente il lettore che non può che lasciarsi sedurre e divorare la vicenda la quale però si sdoppia divenendo più pienamente una vera e propria inchiesta sulle forme del potere e del loro alternarsi, spesso ambiguo ed equivoco in Italia.

Un movimento spesso molto teatrale, una messa in scena vera e propria che assomiglia più a un gioco delle parti pirandelliano che a un’azione sostanziale in grado davvero di mutare le cose. Il che tradisce un carattere nazionale profondamente restio ad ogni forma di cambiamento che non si limiti a un vacuo sbraitare da piazza a piazza.

Indirettamente Gian Arturo Ferrari sembra suggerire che il vero tema del libro sia proprio il cinismo e la sua temperatura. Strumentazione base ed efficace per ribattere ogni ideale e rinfrancare quel sentimento di familismo amorale che da sempre caratterizza il paese e di cui il fascismo diviene la bolla sperimentale ideale al punto da non essere mai più abbandonato in quasi ogni ambito del fare italico, non ultima la comicità: da Alberto Sordi a Checco Zalone. Il cinismo dunque qualche forte elemento coadiuvante di una società spaventata e al tempo stesso pettegola come quella che da corpo all’Italia fascista.

La Milano fascista

In La storia se ne frega dell’onore, Milano ha l’aspetto lugubre e teso della sua migliore architettura razionalista, di cui Ferrari è tra le altre cose un amante e conoscitore (abitando proprio in uno dei palazzi simboli del razionalismo italiano progettato dal grande architetto comasco Giuseppe Terragni). Ed è proprio quel tipo di dimensione estetica e di illuminazione a colorare le pagine del libro che ricorda non poche volte la fotografia algida e metallica de Il conformista di Bernardo Bertolucci.

Tuttavia proprio questo tipo di ricostruzione rivela anche come le medesime architetture anni dopo sarebbero state tra le protagoniste gaie di quella che sarebbe poi stata definita (e propugnata) come la Milano da bere, oltre che vera e propria capitale dell’editoria italiana.

In tal senso il cinismo contro cui si scontra il commissario di Ferrari è il medesimo, solo con all’interno un’imprevista sfumatura. Così come l’ambientazione di quella che fu l’amministrazione pubblica italiana, amministratori compresi, resta sostanzialmente invariata prima e dopo il regime fascista, così il cinismo diviene l’elemento con cui resistere, ma anche e soprattutto con cui aderire e partecipare attivamente alla dittatura.

E non è un caso che cinismo e comicità vengano associate a Roma, «la città più fascista d’Italia» come ebbe a nominarla ne L’odore del sangue, Goffredo Parise. Giudizio certamente suggestivo, ma non del tutto vero e a rivelarlo con dovizia è in questo caso ancora la Milano raccontata da Ferrari, vera protagonista di una storia che mostra esplicitamente quel carattere nazionale che pur nella diversità di un paese così lungo e stretto sembra aderire con precisione come una lunga ghetta nera su tutto lo stivale.

Un regime che per l’appunto vive sempre sull’orlo del ridicolo (che non è mai alternativo alla tragedia) ed è proprio su quel bordo stretto che vive anche la vicenda tutta editoriale contenuta nel romanzo. L’editoria e la politica, la libertà di stampa e la censura: due movimenti che raccontano un paese dalle fondamenta fragili, ma anche montato a schiuma con la leggerezza della propria stessa banalità che gli impedisce di volta in volta di affondare pesantemente.

Non di meno luogo facile alla tragedia, l’altra faccia di un comico cinismo, che coinvolge quelli che possono essere definiti come i suoi migliori figli, colpevoli però di non aver mai pienamente compreso che il contesto resta immutabile ancor di più nei suoi più evidenti vizi.

Ritratto degli anni Trenta

Sorta di sequel dell’informatissimo (non potrebbe essere diversamente) Storia confidenziale dell’editoria italiana, La storia se ne frega dell’onore è un ritratto vivido degli anni Trenta del Novecento che sembrano rivivere, con tutte le differenze del caso, anche nei nostri anni Venti così privi d’immaginazione e così facili ai revival sotto forma di comica tragedia.

In poco più di centoventi pagine Gian Arturo Ferrari non solo riesce a isolare il fenomeno del fascismo, ma offre al lettore una chiave di lettura efficace di un paese in perenne cerca di un salvatore dentro al quale anche i sistemi più organizzati e limpidi, così come quelli più loschi e oscuri, sembrano appiattirsi attraendosi l’un con l’altro.

Nonostante i dati rivelino la poca passione degli italiani rispetto alla lettura, non fanno così che affiorare di anno in anno dossier, memoriali, agende, tutto più o meno inedito, tutto più o meno incomprensibile.

Verrebbe così quasi da ipotizzare che un paese così poco aduso alla lettura non possa che sviluppare inevitabilmente una forma ipnotica per lo spionaggio e il travisamento, un gusto sadico per i segreti altrui che finiscono regolarmentUne per rivelare più i propri che quelli degli altri. Inevitabile che il teso e mascellare me ne frego si ritrovi per contorcersi contro il proprio stesso onore.

Sintesi efficace del gesto stesso del censurare oggi così nuovamente in voga e che molto dice dell’onore di chi zittisce, più ancora di quanto possa dire di chi viene più o meno violentemente zittito e accompagnato alla porta.


La storia se ne frega dell’onore (Marsilio 2024, pp. 128, euro 15) è un libro di Gian Arturo Ferrari 

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