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Negli ultimi anni c'è stata una maggiore condivisione pubblica delle malattie e delle esperienze di salute attraverso i social media, sfidando il concetto di pudore e suscitando dibattiti sulla giustezza e il valore di tale condivisione.
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La distanza temporale tra l'evento di malattia e la scrittura autobiografica si è accorciata, permettendo racconti più immediati e istantanei che mantengono una lucidità e una grazia nel disordine.
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L'autofiction, che mescola la scrittura autobiografica con elementi di finzione, ha affrontato il tema della malattia e della morte da tempo, ma ora sta diventando sempre più presente e influente nella letteratura contemporanea, integrando anche le azioni e le performance degli autori nella narrazione.
Nel 2020 gli ospedali sono entrati nelle nostre vite. Naturalmente esistevano già prima, nelle vite private di ognuno; ed esistevano in qualche caso raro di condivisione del dolore in pubblico, come moto di sincerità, di fiducia nella capacità di empatia del prossimo, di rifiuto radicale e rivoluzionario della maschera del pudore. Penso per esempio a Nadia Toffa, che fra le prime parlò della sua malattia apertamente, sui social e in televisione.
Il pudore è un concetto culturale e sociale, anche questione di classe – in Succession: «the thing about us…we don’t get embarassed». Il fatto è che noi non ci sentiamo in imbarazzo... I protagonisti di Succession sono gli dèi pagani del capitalismo, noi umani invece ci imbarazziamo eccome, continuamente.
La pellicola che separa il nostro corpo dal mondo esterno è più sottile; nessuno ha il controllo sulla mortalità, neanche i Roy, ma a noi manca anche il controllo sulla narrazione della nostra mortalità. Cioè su come gli altri ci percepiscono quando siamo malati, su cosa si dice di noi e soprattutto quali sentimenti ispiriamo.
La paura più diffusa è di ridursi, agli occhi degli altri, a una cosa sola. Noi che non siamo attivisti digitali, non vogliamo essere associati ai nostri guai in quel modo così puro. Per questo, credo, le malattie ce le teniamo per noi. Insieme a tutto ciò che riguarda il corpo, dal mestruo alle gravidanze mancate; il dolore fisico, quando non è visibile. Del corpo mostriamo ciò che si può sfoggiare, anche la sessualità, a volte, ma solo in una certa cornice, socialmente codificata; il resto lo nascondiamo.
Il dolore converte
Lo dice bene Cose che non si raccontano (Einaudi) di Antonella Lattanzi, racconto di un iter di procreazione medico assistita che va molto male, che sulla capacità di mentire si sofferma molto. Questa mancanza di sincerità pare necessaria anche perché gli altri, là fuori, sembrano curiosi ed entusiasti di riuscire a individuare una parrucca e quello che nasconde, una fecondazione assistita, una crepa. Proiezione, scongiuro, morbosità, una fascinazione per le crepe altrui, quando sono segrete. Ma rendere pubblico un dolore disarma la morbosità. È un manifesto: se vuoi davvero proiettare su di me le tue paure ecco, guardami intero, ti faccio vedere tutto.
Far vedere tutto è una delle possibilità date dei social media. Tutto di una cosa, per esempio la malattia di Fedez: operato per un tumore al pancreas, ha filmato la camera d’ospedale, sé stesso prima, la moglie stesa accanto a lui, sé stesso dopo, la cicatrice e la riabilitazione, e ha causato il dibattito: è giusto, è sbagliato, è solo un modo per monetizzare? Oggi più che fatturare si dice convertire: le views in soldi, il dolore in liquidità. I difensori del pudore come valore innato dell’essere umano sono insorti. E così anche i filosofi del pudore come patto sociale indispensabile (quelli che “non sta bene”, nel senso di non si fa).
Autofiction
Eppure questa stessa condivisione, il vivere pubblicamente la malattia, viaggia da tempo anche attraverso la letteratura. Febbre di Jonathan Bazzi è uscito nel 2019, esponendo due vergogne: l’essere sieropositivo e l’essere cresciuto a Rozzano, in un paese in cui per uno scrittore è un’eccezione non avere una provenienza borghese, avere altri codici, altri modi, anche rispetto al corpo (oggi vorremmo dire di avere una “letteratura proletaria” italiana, quando – tranne fulgide eccezioni – la letteratura in Italia l’hanno sempre fatta i colti, che poi erano i ricchi, e anche oggi gli scrittori vivono spesso di rendite da capitale, non certo di bandi statali e residenze per artisti sovvenzionate).
L’autofiction attraversa naturalmente il tema di malattia e morte, del resto Annie Ernaux, massimo esempio di scrittura autobiografica che interseca la scrittura sociale, nel 2000 pubblica in Francia L’Evento, un libro che, insieme a Gli Anni (2008), ha portato al Nobel per la letteratura nel 2022. L’esperienza di una ragazza che cerca disperatamente di abortire in un mondo che non le riconosce questo diritto significa portare alla luce una ferita collettiva.
Il tempismo
L’autobiografia e l’autofiction hanno parlato di malattia ben prima dei social, ma quello che cambia è il tempismo. Parlare di un aborto, di un cancro, di una procreazione assistita a cose fatte, magari quando i capelli ricominciano a ricrescere, è diverso dallo scrivere Dispatches from my hospital bed, una pubblicazione distribuita via newsletter dello scrittore Hanif Kureishi, resoconti e riflessioni in tempo reale inviati appunto dal letto di ospedale dopo una caduta che l’ha lasciato paralizzato.
Non si tratta di definire quale sia la giusta distanza letteraria dall’evento, ma di notare come la distanza temporale tra evento e scrittura negli ultimi anni si sia accorciata, e di come il racconto sia cambiato di conseguenza. L’istantaneità non è un valore di per sé ma è di certo una novità, e si distinguono particolarmente quelle scritture che nella confusione del dolore e anche nella fretta cruda determinata da una malattia terminale mantengono una lucidità, una grazia nel disordine.
Come d’aria
Ada D’Adamo ha scritto Come d’aria (Elliot) mentre era malata, ed è morta il primo aprile di quest’anno, dopo aver saputo che il suo libro era fra i dodici finalisti del premio Strega. Il libro ha poi vinto il premio Strega Giovani, e mercoledì è entrato nella cinquina dello Strega. Al secondo posto con 199 voti contro i 217 di Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino, nell’inatteso ruolo di antagonista per la partita finale contro la favorita.
D’Adamo non parla della sua malattia, ma della sua storia con la figlia Daria, amatissima figlia gravemente disabile: «Condizione che sempre accompagna i documenti che ti definiscono: “handicap grave”, “ipovisione di grado grave”, “grave compromissione”, “contributo disabili gravissimi”...».
È una gravità che l’ecografia morfologica non coglie, e questa mancata diagnosi toglie a D’Adamo la possibilità dell’aborto terapeutico. E poi il coraggio di dire, sempre rimanendo fedele a quell’onestà che non teme i giudizi anche perché ai giudizi è abituata fin dal primo sguardo in ospedale, che lei quel feto non l’avrebbe tenuto se avesse saputo la verità in quei mesi di gravidanza.
E che questo non sottrae nulla all’amore che da madre prova per la ragazza che oggi c’è. L’autrice lo fa per la prima volta in una lettera alla Stampa del 2008, ed è con questo gesto che inizia il suo racconto, che prosegue e si ritrova in Come d’aria, uscito nel 2023. Sempre più c’è una presenza dell’autore in quanto corpo, oltre che come dato biografico; cioè come l’autore gestisce in sincronia gli eventi che gli capitano e che contemporaneamente racconta, come abita e prende in mano il racconto.
Tre ciotole
Lo scrittore Alessandro Baricco, che con Fedez non ha nulla a che fare, che sui social è entrato tardi, li ha usati poco e in modo mediato, il 22 gennaio 2022 ha iniziato così un annuncio: «Ehm, c’è una notizia da dare e questa volta la devo dare proprio io, personalmente. Non è un granché, vi avverto. Quel che è successo è che cinque mesi fa mi hanno diagnosticato una leucemia mielomonocitica cronica.»
L’intervista di Michela Murgia al Corriere della Sera è stata un esempio, direi il primo, di uso politico e pubblico della malattia e della morte; ha sfondato una parete quando ha rivelato di avere un tumore al quarto stadio, ma anche quando con un’altra scelta narrativa e politica ha pubblicato il video in cui ha rasato i capelli.
Questi gesti queste parole questa presenza vanno oltre l’abbattimento del concetto di vergogna, indicano una nuova strada. Non si è trattato di offrirsi volontaria come tributo, come si può fare online, ma di prendere il controllo della storia, pur senza essere un Roy.
A questo punto il romanzo corale di Murgia, Tre ciotole (Mondadori), dagli eventi si può distaccare, non ha più alcun compito autobiografico, può investigare semmai altre strade simboliche e narrative, altri personaggi, altre voci, spesso opposte a quella dell’autrice, o con cui l’autrice ha avuto delle conversazioni via media in passato – la divisa del generale Figliuolo, qui menzionata en passant dalla domestica di un colonnello, che di lei Murgia dice, “quella pazza”. Tre ciotole è per la terza settimana il libro più venduto in assoluto, in una classifica che di solito vede al vertice libri stranieri o romance o thriller.
L’autofiction non è mai stata una moda passeggera, in questo periodo è un genere particolarmente fertile che promette di arricchirsi sempre di più, non solo delle facce e parole degli autori, ma anche delle loro azioni; la performance, intesa in senso alto come gestione delle proprie emozioni e scelta consapevole sul come agirle, fa parte oggi a pieno titolo dell’opera letteraria.
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