Sono passati ottant’anni dalla notte in cui il Gran consiglio del fascismo decise di sfiduciare Mussolini. L’enigma di come cambino idea le masse permette di tracciare una linea che arriva fino al presente
Nella notte a cavallo tra il 24 e il 25 luglio 1943, esattamente 80 anni fa, una lunga seduta del Gran consiglio del fascismo si conclude con la sfiducia a Benito Mussolini. Nel pomeriggio, dopo l’incontro con il re Vittorio Emanuele III, il “duce” è destituito da capo del governo e arrestato.
A distanza di giorni o settimane da questi eventi, il vento sembra già cambiato in favore del nuovo ordine, che ha preso il posto del regime fascista.
Il 26 agosto, Alberto Moravia firma sul quotidiano Il Popolo di Roma un lungo editoriale dal titolo “Folla e demagoghi”, in cui ricorda come, in vent’anni, «più è più volte, nelle occasioni più diverse, abbiamo visto la folla accalcarsi nelle piazze per ascoltare discorsi e applaudire».
Manifestazioni in gran parte «spontanee», condite di «entusiasmo» e «delirio». Solo che, continua, «in questi ultimi giorni, con spontaneità certamente maggiore, la folla ha gremito altre piazze non meno celebri e illustri di piazza Venezia. Manifestazioni di fede, applausi, evviva, insomma tutto il solito modo di esprimersi delle folle».
E siccome «non crediamo che ci siano a Roma due moltitudini ben distinte, una che applaudiva durante gli ultimi vent’anni e una, invece, che ha cominciato ad applaudire soltanto da venti giorni», si è costretti a pensare che «si tratta sempre della stessa folla».
Il cambio del vento
Moravia fa discendere da queste osservazioni un invito a liberarsi della «folla», come categoria mentale prima ancora che come espressione politica, perché è del rapporto con questa che si nutrono i demagoghi.
È in quella parvenza di «consenso» data dall’acclamazione entusiasta, in quella capitolazione del pensiero che lascia il posto al «misticismo» politico, che si radica il potere dei capipopolo. Uscire dall’«infantilismo politico»: questo è il compito dell’Italia uscita dal fascismo.
L’autore de Gli indifferenti rinnova qui alcuni dei più comuni argomenti degli intellettuali del tempo contro il potere delle «folle», delle «masse» acefale, arroganti e conformiste.
Si pensi a José Ortega y Gasset, che nel suo La ribellione delle masse (1930) scriveva della massa che «travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato». Anche Hannah Arendt, nella sua opera monumentale sui totalitarismi, legherà l’affermarsi di questi regimi alla crescita di masse di individui sradicati e privi di relazioni tra loro.
Eppure, l’osservazione del fulmineo cambiamento del vento, seguito alla caduta del fascismo, può aiutare a fare luce su aspetti più complessi che riguardano il consenso popolare nei sistemi di governo autoritario e totalitario. Aspetti che possono rivelarsi d’interesse anche per la riflessione sulla democrazia contemporanea e la sua crisi.
Sfumature di grigio
L’interrogativo intorno alle motivazioni che hanno spinto italiani e italiane a dare il proprio sostegno al regime fascista – quale misura di convinzione e quale di costrizione – è materia di dibattito per gli storici.
Ed è un interrogativo a cui, secondo Paul Corner, non è semplice dare una risposta semplice. Secondo lo storico, autore di studi sul «consenso totalitario», non ci sono in questo campo solo il bianco e il nero, il sostegno convinto e il rifiuto, il consenso e la paura, ma un’ampia gamma di sfumature di grigio, in cui l’adesione all’ideologia è parziale, ma la mancanza di opposizione non deriva solo dal terrore.
Ciò che rende particolarmente difficile, in termini generali, misurare il consenso nei regimi non democratici è, ovviamente, l’impossibilità per chi vive al loro interno di esprimere una scelta valida in favore di un’opzione politica.
Il consenso cioè, si può dire, è sempre presunto, dedotto più ancora che dalle manifestazioni di pubblico sostegno delle folle, dall’assenza o dal carattere minoritario delle espressioni di aperto dissenso. Le quali sono, però, vietate.
Per questo il consenso e il suo mutare, in assenza di libertà politica, assumono un carattere prevalentemente negativo. Una forma di non-interdizione, di non-rifiuto, che ha radici nella percezione di impotenza, di impossibilità dell’opposizione, generata dalla privazione dello «spazio pubblico», dal suo «oscuramento» in «tempi bui» di cui ha parlato Arendt.
Una controdemocrazia
Porre l’accento su un consenso “in negativo” permette però di mettere portare l’attenzione anche sui rischi esistenti nell’esercizio della sovranità popolare nelle democrazie, e più in particolare in quella che Pierre Rosanvallon chiama «democrazia negativa», articolata nelle forme del rifiuto.
Questa «sovranità negativa», scrive l’autore di Controdemocrazia, ha due volti. Può manifestarsi come potere d’interdizione (manifestazioni di protesta, veto, ostruzionismo) ma anche «in un altro modo, più debole: quello della passività, del consenso per difetto. A questo proposito, la rinuncia, l’astensione o il silenzio sono vere forme di espressione politica. Sono onnipresenti e hanno un ruolo che non può essere trascurato».
Il «consenso per difetto», in una democrazia, non deriva – come nelle autocrazie – dall’impossibilità di esprimere una preferenza valida, ma piuttosto da una varietà di motivazioni che va dall’indifferenza, all’assenza di una prospettiva alternativa all’esistente, fino alla percezione di un costo dell’azione superiore ai benefici che potrebbe portare, o al senso di completa inutilità dello sforzo.
Si tratta di «zone grigie» dell’espressione politica, che riprendendo la celebre tripartizione di Albert Hirschmann tra loyalty, exit e voice, possono essere rubricate sotto la categoria di defezione (exit).
Queste forme di ritrazione dall’azione hanno accresciuto la loro importanza nel determinare la vita delle democrazie, a partire dai risultati elettorali.
È «la fredda verità della democrazia all’alba del Ventunesimo secolo», scrive Rosanvallon: «siamo entrati in un’epoca indissociabilmente debole e negativa del fattore politico».
I «rifiutanti» contemporanei, scrive, «non somigliano più ai vecchi ribelli o ai dissidenti. Il loro atteggiamento non disegna alcun orizzonte; non li dispone a un’azione critica per agire; non ha alcuna dimensione profetica. Essi esprimono solo, in modo disordinato e rabbioso, il fatto di non saper più dare un significato alle cose e di non saper trovare il loro posto nel mondo. Al contempo essi pensano di poter esistere solo biasimando simmetricamente sempre di più un mondo di “rifiutati” sotto le diverse sembianze dello straniero, dell’immigrato o del “sistema”: devono detestare per sperare».
È un simile spirito, fondamentalmente avverso alla democrazia, che sostiene la crescita delle nuove destre populiste. Un filo rosso, o meglio «grigio», che – anche evitando ogni riduzione semplicistica – lega il passato al presente, e mette in guardia contro i pericoli di un restringimento dell’agire politico come espressione di libertà.
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