- «L’idea del comunismo è quella di realizzare un mondo sensibile», scriveva Ranciere ed è un po’ quello che si vede sulla passerella delle sfilate di moda maschile primavera/estate
- C’è una rappresentazione della mascolinità che si concentra sulla liberazione dai bisogni materiali e sulla scomparsa del lavoro, con un messaggio volutamente ambiguo
- Questo “comunismo sensibile” è particolarmente evidente nella sfilata di Prada, in cui tutto è flessibile, ma non come il lavoro del tempo ormai andato (ma del resto, la signora Prada era frequentatrice di assemblee sessantottine)
Le sfilate uomo primavera/estate appena terminate a Milano segnano non troppo a sorpresa uno spiccato ritorno del comunismo, anche se (o proprio perché) felpato, leggero e fluttuante non appena arriva un refolo di vento. Serve una lunga citazione, mi perdonerete.
È di Jacques Ranciere: «L’idea del comunismo è quella di realizzare un mondo sensibile, dove tutte le capacità umane raggiungono il pieno sviluppo. È contenuta nel terzo dei Manoscritti di Marx del 1944. L’idea del comunismo è un’idea dell’umanizzazione dei sensi umani. Il comunismo è lo stato nel quale l’esercizio dei sensi umani – materiali e spirituali – è fine a sé stesso, non più soggetto alla volgarità dei bisogni». Avremo tempo di dissezionarla, la citazione.
La scomparsa del lavoro
Intanto, l’uscita dalla volgarità del bisogni fa da centro alla rappresentazione della (diciamo) mascolinità che è naturalmente il perno della “settimana” milanese appena terminata. Siamo in un mondo nel quale il lavoro è scomparso. Proprio come racconta – oltre ad una quintalata di bibliografia presente in sociologia da un bel po’ – anche l’incompleta indagine documentaristica di After Work di Erik Gandini, non a caso premiata dall’interesse del pubblico italiano.
La moda maschile “alta”, e non street, questo nuovo pianeta l’ha iniziato ad intercettare già da qualche tempo. Siamo dentro uno spazio-tempo nel quale la fatica si è dissolta, e l’aria si è fatta di nuovo leggerissima sotto i piedi poco è rimasto del ricordo delle riunioni, degli Excel, delle slide dei Power Point (vedi le perfette, rilassatissime, sfilate sia di Emporio che di Giorgio Armani, sempre più amato dalle nuove generazioni, e subliminale riferimento ancora una volta della sabbiosità della collezione Zegna firmata Sartori).
Si diceva della società per com’è ora: da un lato ci sono i rentier, il 10 per cento della parte della razza umana che possiede tutto, e che maneggia in modo impalpabile i propri investimenti (sempre che non lo facciamo altri, comunque saggiamente guidati dall’Ai). Dall’altro c’è il 90 per cento di chi tira la cinghia ma non avrà nulla da fare comunque, aiutato unicamente da un reddito di vita minima (nemmeno di sussistenza o cittadinanza).
Ben sappiamo che dentro a questo 90 per cento c’è chi lotta disperatamente per agguantare in qualche modo i beni di lusso e la rappresentazione di sé del 10 per cento di cui sopra. E una parte che come sempre ne imita lo stile, pur in modo straccione. Perché si tratta pur sempre, e per tutti, di ciondolare sotto un eterno e allucinante sole cocente tutto l’anno (salvo bestiali bombe d’acqua improvvise) e di tirare a campare con tutta la giornata vuota a disposizione.
Voluta ambiguità
Per questo la sfilata di Fendi di giovedì scorso – avvenuta nella nuova fabbrica dell’azienda – ha un carattere scientemente ambiguo. Da un lato si mette in scena l’ennesima versione che Silvia “Doppia F” Venturini dà alla leggiadria maschile sempre più vista come elegantissimo (e non più vacanziero, ma stabilizzato) riposo dopo il safari. Dall’altro l’uscita finale della stilista con gli operai appena dislocati nel nuovo mirabolante spazio produttivo vorrebbe essere un Novecento, un tributo marxista all’uguaglianza tra proprietà e salariati.
Guardate bene, però, le facce delle lavoratrici e dei lavoratori, specie quelli che sfilano nelle retrovie: esprimono scazzo e forse fastidio per l’esposizione di sé in piazza, oltretutto vestiti/e tutti uguali (stessi pantaloni, stesse scarpe bianche), come a raccontare di un salario – ancora ottenuto in cambio di fatica manuale o di controllo dei macchinari sempre più smart – rosicato dall’inflazione e da un futuro che vai a capire come sarà.
Incertezza e avventura
A proposito di questo, dentro gli storici grandi cortili della Statale, Valentino ha messo in scena – piazzandovi una corposa struttura bianca con tanto di mini palco al centro – una possibile visione di quello che appunto attende la popolazione studentesca che abita quegli spazi (premiandola persino con un bel grant per il diritto allo studio per i più deboli): l’incertezza, ma anche l’avventura verso un orizzonte che è davvero ignoto a tutti, e quindi mozzafiato in tutti i sensi.
Come affrontarlo? Con souplesse, ovviamente. Parte della palette viene direttamente dalle collezioni donna (le varie sfumature di rosa della casa, ecc) oltre ai ricorrenti bianco e nero. Tutto viene messo a disposizione per disegnare una friabile per quanto resistente idea di figura maschile – ancora una volta dalle vesti svolazzanti – ma capace di mostrare sempre e comunque i polpacci grazie a pantaloni al ginocchio presenti ovunque, e quindi anche nei business suit (e d’ora in poi, grazie alla grande V, così sarà).
Spunta fuori l’idea del fiore come decorazione anche strutturale di camicie specialmente, che una volta si sarebbe detta post-patriarcale, e ora è semplicemente segno di una gentilezza d’animo nei confronti del mondo perché non diventi ancora più cattivo di così. Un’offerta per placare un dio feroce, insomma.
La stessa divinità che ha devastato ad unghiate la messa in scena dell’ascendente Magliano, il quale - pur interessante - è ancora fermo ad un post-apocalisse datatissimo, addirittura di 50 anni fa. Bei tempi, quelli del “No Future”, che già intuirono il nostro presente ma dentro vitalità straordinarie e tutto meno che arrese.
Coscienza della quale invece è intrisa la collezione di JW Arderson che questa volta – e ancora una volta - coglie l’aria del tempo abbassando i toni quasi allo zero per dedicarsi mano a mano a tagli eccezionali: gli short trasformati da una sporgenza geometrica mai esistita eppure comoda, le nuove inedite modalità di architettura delle volute del tessuto (è evidente che Jonathan ha ben presente il saggio fondamentale di Deleuze, La piega, appunto), soprattutto i sacchi/canottiera da nuovi monaci, che sono poi una possibilità tra le immaginabili nuove esistenze che si potrebbero adottare alla bisogna.
La macchina di Prada
Ma nulla di tutto questo può battere l’ancora una volta straordinario macchinario semantico messo in scena da Miuccia Prada e Raf Simons (e Patrizio+Lorenzo Bertelli, visto che il marchio per vendite è di nuovo primo al mondo). Il set anzitutto: una classica griglia metallica tipica di OMA, dove mano a mano una terrificante e insieme meravigliosa gelatina trasparente cola dall’alto per formare veli di slime horror elegantissimi.
Architettura fluida, come la collezione, che al mondo che si diceva sopra appartiene in pieno. Tutto è flessibile, ma non come il lavoro del tempo ormai andato. Tutto diventa camicia, dal capospalla alle giacche, agli abiti-tuta da ex-lavoro. Anche qui, spuntano fiori ma 3D oppure trasformati con effetto quasi digitale in frange.
La struttura concettuale – ed estetica, fantastica – è chiara e confermata dal comunicato stampa. «Questi abiti riflettono il nostro stato naturale, la costante trasformazione e il movimento dinamico insiti nell’essere umano». Ovverossia: comunismo sensibile. La signora Prada ha sempre detto e ridetto di aver frequentato – pur vestita Saint Laurent – le manifestazioni e le assemblee dal ‘68 in poi. Questa legacy è arrivata a compimento.
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