Nella vita di un lettore si avvicendano fasi tutto sommato riconoscibili. C’è il momento dell’avventura, di solito coincidente con l’infanzia, quando la letteratura è soprattutto un bosco in cui meravigliarsi a fronte di spericolate prodezze. Si attraversano fiabe, fumetti, mondi fantastici, si uccidono mostri e si torna tutti interi. Viene poi il tempo dell’estasi e del margine, in cui il lettore scopre banalmente che il bosco è diventato una strada, e con la strada vengono gli innamoramenti, le dipendenze, la celebrazione della propria differenza ritenuta unica e radicale.

È un momento rappresentato bene in Bones and All, il bel film che Luca Guadagnino ha tratto dal romanzo di formazione horror di Camille DeAngelis del 2015. È quando la protagonista Maren scopre di non essere la sola a mangiare la carne di altri esseri umani e incontra altri cannibali come lei durante la sua esperienza on the road. «Credevo di essere l’unica» dice il personaggio interpretato da Taylor Russell, ed è la sintesi perfetta dell’adolescenza: la paura di essere l’unica a soffrire e il fastidio supremo quando si scopre che non è così.

Leggere Pier Vittorio Tondelli per la prima volta è una sintesi di questa consolazione e di questo fastidio. Entrare nei suoi racconti fa sentire meno soli, ma costringe a prendere atto che esiste una sensibilità collettiva, culturale, geografica se non nazionale, legata anche alle mode del tempo – magistralmente ricondotte a una specie di ordine in Un weekend postmoderno – Cronache dagli anni Ottanta del 1990 (Bompiani) –, e da quel momento ci si muove con l’imbarazzo di essere scoperti e la relativa angoscia di non essere originali.

Vicino

Avvicinarsi a Pier Vittorio Tondelli prima dei vent’anni (ma anche dopo) porta alla liberazione ma ha un costo, perché coincide con la fine della propria unicità proprio nel momento in cui si brama soltanto di essere unici.

È un mutamento inevitabile e terribile in cui la crisalide della giovinezza si polverizza in una serie di analogie e temibili paragoni con il mondo esterno. Si è soli ma non lo si è più: come tenere insieme questa contraddizione, in cui la solitudine è sia una beatitudine sia una condanna? E quanti scrittori del Novecento italiano sono stati capaci di far emergere questo sentimento in maniera così esplicita e fraterna, a parte Cesare Pavese?

Che siano per strada, in caserma, in aeroplano o su un litorale romagnolo, i protagonisti dei romanzi di Pier Vittorio Tondelli vivono l’ambivalenza della solitudine in maniera struggente e a tratti disperata, affidati all’isteria artificiale della lingua dello scrittore, che ha forgiato uno stile festoso ma spesso orientato alla crisi, del senso di sé e del mondo.

Forse non è un caso che sarà proprio Luca Guadagnino a portare sullo schermo l’adattamento di Camere separate (Bompiani) al cinema: quando aggira la ruffianeria, c’è qualcosa nel suo cinema che sa rendere conto di un’intimità banale e tradita che prima o poi si fa spirituale.

Perché è questa l’altra fase riconoscibile nella vita di un lettore: dopo il bosco e la strada arriva la cattedrale. È il tempo in cui il lettore si priva dell’ansia di rispecchiamento nei romanzi e in cui arriva a maturare e apprezzare l’idea che una storia non sia stata scritta solo in funzione della sua empatia e del suo dolore.

A modo suo, anche Pier Vittorio Tondelli è arrivato a costruire una cattedrale: con Biglietti agli amici (Bompiani) del 1986 e Camere separate del 1989, ha creato dei rifugi in cui far riverberare l’incontro con gli altri e l’esperienza dell’amore in maniera più alta, consegnando la sua lingua a una malinconia mistica che ha pochi eguali nella letteratura italiana (di nuovo, è inevitabile pensare a Pavese): sono luminose le ossa di chi si è definitivamente spogliato dell’adolescenza.

Riletto

Rileggendo l’opera di Tondelli a più riprese negli ultimi anni, per lavoro e per necessità, mi sono chiesta se sarei riuscita mai a trasformarmi come persona senza la fase del dimenticatoio e dell’abiura nei suoi confronti. Se a un certo punto, per smettere di essere una creatura della strada e arrivare a concepire la letteratura e la realtà come un sistema più complesso di riferimenti, in cui ritrovarmi a prescindere dalla mia somiglianza con i personaggi sulle pagine che erano sempre battuti e beati, innamorati e sfasciati, non fossero necessari dei sacrifici.

Degli strappi, delle vere e proprie mutilazioni. Dimenticarsi di aver letto una cosa a cui hai voluto bene e dimenticarsi il motivo per cui ti è piaciuta perché l’immagine che ti restituisce di te è ormai insopportabile, è una condizione che ho sperimentato.

Con alcuni autori, e penso che questo sia vero soprattutto con Pier Vittorio Tondelli, ho avvertito la sindrome descritta da Edgar Lee Masters attraverso la voce di Harlan Seawall in Spoon River: «Perché allora vorremmo cancellar dal ricordo le parole tenere, gli occhi indaganti, e restare per sempre dimentichi non tanto del nostro dolore, quanto della mano che lo ha risanato.» La vergogna nei confronti della mano che ci ha risanato non si prova con chiunque, e non è un riconoscimento da dispensare con leggerezza.

Non è una vergogna che nella mia vita da lettrice ho sentito di dover maturare nei confronti di Sylvia Plath o di Anne Sexton o di qualsiasi altra voce facesse parte del mausoleo della mia giovinezza, ma è una vergogna che nei confronti di Tondelli o di Jack Kerouac si è fatta inevitabile: e non perché la forma di cura trovata nei loro romanzi fosse più profonda o speciale rispetto a quella fornita dalla poesia confessionale delle autrici che ho citato, ma perché c’era una visceralità e un’ansia e una sorta di inevitabilità nichilista mescolata all’erotismo di tutte le intenzioni che mi rendeva la loro brama di vita quasi più insopportabile dell’idea del suicidio.

Forse perché da lettrice temevo che la mia timidezza e la mia devozione alla solitudine fossero per loro in fondo una sconfitta, qualcosa di poco romanzabile. C’era qualcosa in loro che richiedeva un patto di fedeltà e, come dimostrano le vicende dei loro stessi protagonisti, le conseguenze della fedeltà sono spesso pericolose.

Dimenticato

Dimenticare Tondelli per molti anni mi ha permesso di ritrovarlo importante, e anche di vederlo crescere, di avvicinarmi alla sua figura come se fosse quella di un fratello che non si era fatto né rivoluzionario né prete, ma aveva trovato una sorta di autonomia contenta, malgrado la malattia nel corpo. Questa rinnovata importanza non era legata più tanto ai suoi affreschi sentimentali, ma proprio al suo uso della lingua.

Molto si è appiattito nella letteratura italiana: molti autori e molte autrici hanno iniziato ad avere paura del suono, delle scatole cinesi nelle frasi, degli slanci pirotecnici e di un uso chiassoso delle immagini; la dolenza è diventata un sentimento primario, spesso confuso con l’eleganza e la maturità dello stile; intere subordinate, ellissi e corto circuiti metaforici sono annegati in un oceano di facili soluzioni.

Quando Tondelli è entrato nella sua cattedrale, lo ha fatto portandosi dietro il corredo della sua immaginazione, la sintassi maturata in anni di racconti, cronache, prese dirette sulla realtà, deponendole quasi su un altare e dimostrando che per maturare come scrittori non esiste solo la via del rinnegamento dei propri istinti selvaggi, che non esiste solo l’abiura, ma anche una forma di tenerezza da presentare ai lettori come un dono.

Se il lettore a tratti ha perso fiducia in lui, lo scrittore non l’ha persa in sé stesso: a fronte di una mercificazione perenne del gusto letterario in base a ragioni di vendita e di consenso, c’è qualcosa di prezioso in questa sua continuità indifferente alle regole del tempo. Tondelli si è preso il tempo proprio quando ha smesso di sentire l’obbligo di rappresentarlo, e questo essere meno assertivo lo ha reso più libero. Basta pensare al titolo del documentario di Andrea Adriatico dedicato allo scrittore che prende spunto da una sua frase: «La solitudine è questa».

Tondelli non dice «Questa è la solitudine» imprigionando sé stesso e chi legge in una condizione da cui è difficile emanciparsi perché ha tutto il tondo di una conoscenza perfetta e di una sentenza, ma «La solitudine è questa». In questo momento, in questa fase, su questa strada e in questa cattedrale: qualcosa che ci attraversa in tutta la sua bellezza e il suo dolore, ma che tra poco forse non ci riguarderà più. E quanto è liberatorio non essere speciali e unici per sempre.


Gli eventi alla Festa del Racconto di Carpi

Giovedì 3 ottobre, ore 21.00, Carpi, cinema Eden

La permanenza di Tondelli: Proiezione del film La solitudine è questa di Andrea Adriatico (Italia, 2022).Dibattito con Andrea Adriatico, Claudia Durastanti e Alcide Pierantozzi

Tondelli visto da scrittori non ancora quarantenni, che della sua fama hanno vissuto solo il riflesso. Il regista Andrea Adriatico ha chiesto a Jonathan Bazzi, Angela Bubba, Viola Di Grado, Paolo Di Paolo, Claudia Durastanti, Alessio Forgione e Alcide Pierantozzi di scegliere una delle opere di Tondelli a testa, di parlarne inserendola nel contesto in cui è nata analizzandone il valore.

Alla proiezione del film seguirà un confronto tra il regista e due dei protagonisti del film, Claudia Durastanti che si è occupata di Camere separate e Alcide Pierantozzi che ha ripercorso Pao Pao.

Giovedì 3 ottobre, ore 19.00, Carpi, Auditorium Biblioteca Loria

Leggere e ascoltare Missitalia: Reading-aperitivo con Claudia Durastanti. Letture di Sara Gozzi. Dopo il successo internazionale di La straniera, Claudia Durastanti torna con un libro percorso dalle figure magiche e sfuggenti di tre donne, unite da una rete di corrispondenze invisibili, tra epoche antiche e future, dentro a un Meridione che diventa Terra: quella d’appartenenza ancestrale e il pianeta che osserviamo da lontano, guardando tutto quello che potremmo essere.. In questo reading viene attraversato il libro per apprezzarne da vicino la forza della scrittura e l’audacia della forma.

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