Per una serie di fortunate occasioni nel mese scorso ho visitato due mostre temporanee in due capitali europee che hanno uno strano elemento in comune, nello specifico un materiale biologico: la cheratina
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Per una serie di fortunate occasioni nel mese scorso ho visitato due mostre temporanee in due capitali europee che hanno uno strano elemento in comune, nello specifico un materiale biologico: la cheratina.
La prima è a Oslo, al NAM Nasjonalmuseet (fino al primo ottobre 2023) e si intitola Oltre Terra. Why Wool Matters, ed è dedicata alla lana (e al rapporto millenario tra gli esseri umani e le pecore), una mostra originalissima curata dal duo di designer italiani Formafantasma; l’altra è a Parigi al MAD Musée des arts décoratifs (fino al 17 settembre) e si intola Des cheveux & des poils ed è appunto dedicata a capelli e peli nell’arte, nella moda e nella cultura mediatica degli ultimi secoli.
Mi è sembrata una bizzarra coincidenza che questi elementi biologici – di fatto i filamenti proteici prodotti naturalmente dai bulbi piliferi dei mammiferi – siano diventati contemporaneamente materiale museale e oggetti di riflessione artistica e filosofica – anche se con diversissimi criteri e metodi sia nella curatela che nell’approccio espositivo – tanto da dedicargli delle mostre importanti.
I fattori interessanti di queste due mostre sono molteplici, ma quello che ho trovato personalmente più stimolante, da profana della critica d’arte e del design contemporaneo, sono le riflessioni venute fuori dalla visione di Oltre Terra e successivamente dalla comparazione di questa con l’esposizione parigina.
Superando le questioni sulla contrapposizione occidentale natura/cultura e il binomio naturale/artificiale, le due visite pongono soprattutto domande sul nostro rapporto con la materia biologica, l’esigenza tutta umana di sfruttarlo, controllarlo e domarlo, e le differenze di questo stesso rapporto tra il prodotto biologico animale e quello umano.
Una mostra ibrida
La mostra di Oslo, a cura dei Formafantasma, l’innovativo duo formato Andrea Trimarchi e Simone Farresin, sarebbe una mostra di design e dico “sarebbe” perché ha molto poco in comune con la semplice esposizione di oggetti a cui questo genere di definizione riduttiva ci ha abituati, mentre sembra più un ibrido tra una mostra antropologica, una di storia naturale e una di arti applicate.
Una grande sala della nuova sede del Nasjonalmuseet ospita una sobria struttura metallica attorno alla quale sono disposti oggetti, documenti, video, quadri e manufatti, (tra cui una veste di lana vecchia un paio di millenni ritrovata intrappolata in un ghiacciaio, forbici e lame per la tosatura, un’antica vela di lana, documenti che attestano che il commercio di lana è la base della nascita dell’economia, diverse riproduzioni di tipi di pecore tra cui l’iconico Shrek, l’esemplare di Merino ritrovato solo in un bosco in un bosco completamente immobilizzato dai suoi 35 chili di vello).
Ma la mostra, pensata più che con un impianto espositivo tradizionale come una sorta di “diorama esploso”, sembra servirsi degli elementi in display solo come occasione per aprire finestre di riflessione che vanno molto oltre quelle più prevedibili sull’utilità e la versatilità della lana nel design e nella storia umana.
Gli apparati testuali che accompagnano la mostra, a cura del geniale filosofo del vivente Emanuele Coccia, introducono i visitatori in ognuna delle otto sezioni della mostra invitandoli ogni volta a interrogarsi, in maniera profonda e poetica insieme, su un diverso aspetto della relazione di interdipendenza che esseri umani e pecore hanno intessuto nei secoli, spesso ricorrendo a metafore che rimandano all’universo semantico dell’amore.
Veniamo introdotti al tema attraverso una questione di seduzione e interdipendenza. Quale specie ha sedotto per prima l’altra? Gli umani fornendo protezione e garantendo il cibo in cambio della lana e della carne o viceversa? Da diecimila anni chiediamo alle pecore di prestarci il loro mantello, esiste una forma più grande di intimità? L’amore o meglio la fine dell’amore (“Love dies, relation remains” è il titolo della quarta sezione) viene tirato in ballo anche quando si affronta la questione della lana più grezza a cui ormai vengono preferite nuove fibre de è considerata un inutile eccesso; le pecore che producono vello inutilizzabile sono state allevate in modo che lo perdano senza essere tosate. E cosa è questa lana perduta se non il resto malinconico di una passione esaurita?
Coccia pone altre domande da capogiro: cosa significa essere il designer di un altro essere vivente? Per rispondere dobbiamo far ricorso al concetto di co-domesticazione come un processo di design mutualistico. In effetti, la specie umana, attraverso le tecniche che ha elaborato nei millenni per trarre vantaggio dalle specie addomesticate, le ha rese dipendenti dal proprio sistema (si pensi alla Merino che muore se non viene tosata) diventando essa stessa dipendente dalla materia vivente da loro prodotta.
A loro volta, insieme hanno trasformato la geologia del paesaggio, come mostrato dalle tracce che la pratica della transumanza lascia indelebilmente nei territori in cui le interdipendenze tra specie hanno creato alleanze reciproche.
Al cuore della mostra c’è un intenso video in bianco e nero – che i Formafantasma hanno realizzato con l’artista visiva Joanna Piotrowska – in cui scorrono immagini di mani che accarezzano e manipolano una pecora, mentre una voce legge un potente estratto dal saggio del filosofo Richard Kearney sul tatto, l’unico senso che non può escludere la reciprocità.
Sebbene tutta la mostra sia in qualche modo inscritta in questo contesto narrativo di amore, interdipendenza e cooperazione tra specie, con pecore totem, generosità e morbidezza, risuona un po’ ovunque in sottofondo l’eco del tragico impatto dell’azione umana sulla natura, il modo in cui, questo amore tra umani e ovini così sapientemente raccontato è comunque un amore “tossico”, per usare un aggettivo in voga, in cui nella parte del manipolatore, sfruttatore, egoista, dominatore c’è sempre e comunque uno solo: l’essere umano.
E se proprio dovessi fare un appunto a questa visita – vero e proprio food for thought, mi sembra che al messaggio di denuncia sulla crisi ambientale (a cui i Formafantasma sono da sempre molto attenti, anche con gli altri loro lavori come Cambio, dedicato all’industria del legno) mancasse il grido di allarme e anche solo qualche ipotesi di reindirizzamento dell’azione umana.
Non che mi aspettassi delle soluzioni, ma non avrei considerato fuori luogo, visto che siamo nell’ambito del design, trovare ad esempio nuove proposte per il recupero della lana di scarto o qualcosa in più sull’uso del materiale biologico animale nel contemporaneo, ovviamente nel suo risvolto etico oltre che estetico. Da Oltre Terra, l’umano in fondo ne esce piuttosto bene, una sorta di buon pastore in una relazione di amorosa interdipendenza con i suoi animali, mentre ci meritiamo una rappresentazione più veritera e scomoda, in quanto violenti distruttori dell’ecosistema, più che accarezzatori di soffici velli o allattattrici di agnellini (c’è una bellissima fotografia che riproduce questa idea: Rosalind Fox Solomon, Catalin Valentin’s Lamb, dalla serie Here or There, 1981).
Molto pop, poco politica
L’altra mostra sui capelli e i peli al MAD di Parigi è nel suo impianto molto più classica, meno filosofica, molto pop e poco politica, parecchio francocentrica (forse per fugare ipotetiche accuse di appropriazione culturale?), tuttavia estremamente ricca, dato che sono esposti più di 600 pezzi tra quadri, sculture, oggetti, gioielli, fotografie, manifesti, video pubblicitari, parrucche, abiti, che ci danno un’idea di quanto gli esseri umani siano stati letteralmente ossessionati dai capelli, dalle barbe e dai peli nel corso dei secoli. La mostra è suddivisa in cinque macro sezioni, “Moda e Stravaganze” dedicata soprattutto all’evoluzione delle acconciature femminili e dei copricapi dal Medioevo fino al 1800 tra imposizioni sociali, leggi e mode.
Oltre a dipinti, teste di statue, pettini e ornamenti, sono esposti anche manufatti, inquietanti gioielli e collane realizzati con i capelli, una tendenza in voga soprattutto nel XIX secolo, ma troviamo tra gli oggetti esposti anche la hair necklace della geniale artista e attivista Sonya Clark (che lavora da anni con i capelli afro e avrebbe meritato una visibilità maggiore).
Nella seconda sezione “Peli o non peli?” si affronta invece il tema della pelosità, del viso e del corpo, sia maschile che femminile, con un’esposizione di quadri e opere che rappresentano barbe, baffi e favoriti, (che nei secoli hanno avuto significati simbolici e identitari a volte diametralmente opposti rispetto all’idea di virilità); ritratti di nudi più o meno pelosi, tra cui il famosissimo l’Origine du Monde di Courbet, e una parte dedicata a come la pubblicità e i media hanno trattato il tema della depilazione negli anni.
Nella terza sezione “Tra natura e artificio” viene esplorata l’enorme gamma di artifici che l’essere umano ha messo in campo per trasformare la propria capigliatura, quindi sono esposte una grande varietà di parrucche e artefatti legati a miti sui colori naturali o artificiali dei capelli.
Nella sezione “Mestieri e competenze” una pletora di oggetti anche molto antichi raccontano i diversi mestieri legati alla gestione di capelli, barbe e peli. Infine la sezione “Sguardi su un secolo capelluto” pone finalmente l’accento sull’aspetto un po’ più politico delle acconciature, focalizzandosi sul XX secolo, quando le creste dei punk, i capelli selvaggi degli hippies e le chiome spettinate del grunge hanno costituito scelte ideologiche più che estetiche.
La mostra finisce con alcuni abiti di alta moda fatti di capelli umani di Alexander McQueen, Martin Margiela e altri, creazioni tanto spettacolari quanto immettibili, realizzate con capelli umani, applicazioni o parrucche-cappotto che indossate possono trasformare l’umano in un mammifero non più nudo e vestito ma ricoperto di pelo come – toh chi si rivede – una pecora.
In questi due percorsi attraverso le materie biologiche animali, ho avuto la fortuna di essere accompagnata da Elena Tosi Brandi, designer, ricercatrice e insegnante all’Ensci (École Nationale Supérieure de Création Industrielle) di Parigi e ho potuto sottoporre a lei che si interessa delle relazioni multispecie nel design contemporaneo, i miei dubbi da profana.
L’interrogativo che le ho sottoposto immediatamente dopo aver lasciato l’ultima stanza di “Capelli e Peli” era «perché, dato che i capelli umani sono una fibra resistentissima, poco deteriorabile, che si può tessere, recuperabile in maniera indolore, è stata così sottoutilizzata come materia, nella moda e nel design in generale? Perché anzi sembra quasi farci schifo l’idea di qualcosa prodotto con i capelli umani mentre non abbiamo nessuna remora a metterci un maglione di lana, fatto comunque col pelo rubato a un altro essere vivente?».
La questione secondo Tosi Brandi, la cui pratica si mescola con le scienze umane, è legata alla questione dell’identità della nostra specie rispetto all’alterità delle altre, che consideriamo inferiori. La mostra stessa testimonia quanto i capelli nel tempo e nello spazio abbiano avuto e abbiano a che fare con il nostro modo di apparire, di autorappresentarci, di appartenere a una categoria o di sentirci unici. Di costruirci, seguendo e cambiando codici socioculturali, tecnici ed estetici, un progetto di identità, e quindi di design.
Un design della metamorfosi attraverso la manipolazione dei nostri capelli o peli, che pure evolvendo nel tempo contengono il nostro Dna unico, puro da contaminazioni esterne. Utilizzare i capelli di un altro essere umano è un tabù, almeno nella cultura occidentale. C’è qualcosa di sacrilego e inquietante nell’utilizzo, sfruttamento o nella conservazione dei capelli altrui, come il tentativo di appropriarsi di qualcosa di vivo e intimo, una parte “unica” che distingue ogni individuo della specie umana.
Una specie in cui ogni singolo, anche se in diverse scale, afferma la sua singolarità attraverso barriere che ne difendono l’intimità, vietano lo sfruttamento e problematizzano la mescolanza di materie organiche. Barriere che invece non erigiamo nei confronti delle altre specie, come gli ovini, a cui non attribuiamo nessuna identità, per cui il furto e l’appropriazione della loro lana per fini pratici e opportunisti, non è legato a niente di sacrilego né a nessuna dimensione simbolica.
Quindi nonostante le pecore ci abbiano permesso di costruire la nostra civiltà fin dall’inizio, di vivere in climi ostili, di navigare, di nutrirci, di fissare le nostre prime idee sulle pergamene fatte con la loro pelle, noi le abbiamo sempre ridotte a una moltitudine senza identità, senza volontà e senza intelligenza, per cui nessuna sacralità viene attribuita al singolo pelo di ognuna, così altro da noi. «Una vita da pecora» o «comportarsi come pecore», sono espressioni dispregiative che in più lingue significano esplicitamente una mancanza di volontà individuale, personalità indefinite e noiose incapaci di autoaffermarsi e distinguersi rispetto alla massa.
Grazie alle conversazioni con Tosi Brandi ho capito quanto la relazione di interdipendenza tra specie sia un tema cruciale che appare chiaramente al crocevia di diverse discipline e pratiche creative, tra cui il design, che in un paradigma critico e di ricerca, si smarca dalla produzione industriale e dalle esposizioni di oggetti decorativi, per diventare un dispositivo di mediazione e inchiesta, posto a interpellare più che a proporre soluzioni semplicistiche.
Credo che tra tutte le interessanti questioni venute fuori da questa bizzarra comparazione tricotico-artistica ci sia di base questa: cosa possono fare gli esseri umani per rendere migliori le sue relazioni con le altre specie e con la natura che li circonda? Riusciremo a capire che gli ecosistemi sono fatti di interconnessioni necessarie e delicatissime tra esseri viventi e strutture artificiali prodotte sia dagli umani che dai non umani?
Saremo in grado di recuperare un rapporto sano con il biologico senza che sia guastato dalle nostre manie di controllo o dalla nostra prepotenza predatoria? Domande da perderci il sonno. Intanto anziché le pecore potremmo cominciare a contare gli umani per addormentarci. Certo che fatica con tutte quelle acconciature diverse.
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