- L’8 settembre 1943, poco prima delle otto di sera, il capo del governo italiano, maresciallo Badoglio, comunicava al paese che di fronte alla «soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione», l’Italia aveva chiesto e ottenuto dagli Alleati un armistizio.
- I disegni imperiali del fascismo, macchiati da crimini di guerra sia in Africa che in Europa, erano stati condivisi dalle élites tradizionali del paese e dalla stessa istituzione monarchica. Naturalmente anche dalle forze armate.
- Nell’area di Roma vi erano sei divisioni italiane e tre tedesche. I rapporti di forza erano tali da ipotizzare una resistenza efficace. Ma non fu così. Il governo Badoglio lasciò le forze armate italiane prive di ordini precisi sul da farsi.
L’8 settembre 1943, poco prima delle otto di sera, il capo del governo italiano, maresciallo Badoglio, comunicava al paese che di fronte alla «soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione», l’Italia aveva chiesto e ottenuto dagli Alleati un armistizio.
Firmato cinque giorni prima a Cassibile, vicino a Siracusa (3 settembre), l’armistizio decretava non solo la fine della guerra dell’Asse combattuta per oltre tre anni dall’Italia monarchico-fascista a fianco della Germania nazista (giugno 1940-settembre 1943), ma anche il crollo del progetto di Mussolini e del regime fascista di fare dell’Italia una grande potenza imperiale, capace di dominare il Mediterraneo come ai tempi dell’antica Roma. Un ambizioso e tracotante progetto politico-militare, intrinsecamente legato ai disegni del fascismo di una trasformazione antropologica del popolo italiano attraverso gli strumenti della pedagogia totalitaria.
Per realizzare i suoi obiettivi il regime aveva provato infatti a creare un “italiano nuovo”, che sapesse «credere, obbedire e combattere», a plasmare una comunità guerriera inquadrata gerarchicamente e consapevole della propria supremazia razziale su slavi, africani ed ebrei. L’Italia fascista negli anni Trenta aveva contribuito in maniera sostanziale – insieme alla Germania e al Giappone – a scardinare l’ordine internazionale di pace costruito (certo non senza pecche) dopo la fine della prima guerra mondiale.
I disegni imperiali
L’Italia di Mussolini e del Re Vittorio Emanuele III era stata costantemente in guerra fin dal 1935, con l’aggressione all’Etiopia, un’operazione neocoloniale oltremare di dimensioni gigantesche con l’impiego di mezzo milione di uomini e i più moderni sistemi bellici, fra cui gli agenti chimici vietati dalle convenzioni internazionali.
Segnato dalla rottura con la Società delle Nazioni e l’avvicinamento alla Germania hitleriana, il percorso era proseguito senza soluzione di continuità con il massiccio intervento nella guerra civile spagnola a fianco del generale Franco e con l’annessione dell’Albania nell’aprile 1939. Spossata da questo continuo e intenso impegno militare, allo scoppio della seconda guerra mondiale l’Italia – vincolata alla Germania dal Patto d’acciaio – aveva rinunciato a scendere subito in campo con l’alleato tedesco, optando per una momentanea “non-belligeranza”, non certo per la neutralità.
E non appena, nella primavera del 1940, si era prospettata la possibilità di un rapido trionfo delle armate germaniche, Mussolini non aveva esitato a entrare in guerra al fianco del Führer, col sostegno di un paese che aveva rapidamente abbandonato le perplessità antitedesche dei mesi precedenti. Con l’obiettivo di imporre un “nuovo ordine mediterraneo”, l’Italia aveva occupato militarmente parte della Francia meridionale, metà della Slovenia (annessa al Regno come Provincia di Lubiana), la Dalmazia, zone della Croazia, il Montenegro, i due terzi della Grecia, aveva partecipato all’aggressione e all’occupazione dell’Unione sovietica, provato (invano) a conquistare l’Egitto.
Il patto con il regime
I disegni imperiali del fascismo, macchiati da crimini di guerra sia in Africa che in Europa, erano stati condivisi dalle élites tradizionali del paese e dalla stessa istituzione monarchica. Naturalmente anche dalle forze armate. Basti ricordare che Badoglio era stato capo di stato maggiore generale dal 1925 al 1940. Di fronte alle pessime prove belliche e alle sconfitte, dopo il Don ed El Alamein, con le città italiane sottoposte ai martellanti bombardamenti alleati, dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia il 10 luglio del 1943, il patto delle élites col fascismo si era infine infranto, così come si era progressivamente allentato e compromesso il legame fra gli italiani e il regime.
Il 25 luglio Mussolini era stato allontanato dal potere, arrestato col volere del Re e sostituito proprio dal Maresciallo Badoglio, che aveva proclamato la continuazione della guerra a fianco della Germania, ma avviato trattative segrete con gli Alleati a Lisbona per giungere all’uscita del paese da un conflitto non più sostenibile.
Il Re, il capo del governo e la classe dirigente monarchica avevano pieno diritto di agire così, vista la situazione, ma si mossero in maniera maldestra e alla fine disastrosa, con l’illusione di poter negoziare l’uscita dalla guerra, atterriti dalla paura della reazione tedesca e con l’obiettivo prioritario di salvare a qualsiasi costo i vertici dello Stato e con essi la monarchia. Il prezzo pagato dal paese fu alla fine altissimo.
Gli accordi con gli alleati
Gli Alleati imposero all’Italia il cosiddetto “corto armistizio” che applicava il principio della resa incondizionata stabilito pochi mesi prima a Casablanca. Allo stesso tempo però, con la dichiarazione di Quebec, sottoscritta dal premier britannico Winston Churchill e dal presidente americano Roosevelt, promettevano all’Italia il miglioramento delle condizioni di resa nella misura in cui essa avesse contribuito alla lotta contro la Germania.
Questo documento orienterà tutta la politica estera dei governi italiani, del governo Badoglio così come dei governi di unità nazionale antifascista, che rivendicarono il contributo italiano contro la Germania (dell’esercito regio cobelligerante e della Resistenza) per chiedere l’adempimento delle promesse alleate, con l’obiettivo di superare lo status dell’Italia quale nazione nemica sconfitta. Su questo sforzo legittimo, protrattosi fino ai negoziati postbellici per il trattato di pace, pesò non poco la fallimentare gestione dell’8 settembre da parte del Re, di Badoglio e dell’establishment militare, che aveva subito minato la fiducia dei vincitori.
Gli accordi con gli Alleati prevedevano, contestualmente all’annuncio dell’armistizio e allo sbarco anglo-americano che si svolse a Salerno (per ragioni strategiche non si poté attuarlo più a nord come auspicato dagli italiani), un’operazione di aviosbarco a Roma di una divisione americana di paracadutisti, previa garanzia italiana dell’uso degli aeroporti intorno alla capitale.
Nell’area di Roma vi erano sei divisioni italiane contro tre tedesche. I rapporti di forza erano tali da ipotizzare una resistenza efficace, se si fosse voluto. Gli stessi piani difensivi tedeschi avevano previsto inizialmente di arretrare oltre la linea degli Appennini in caso di offensiva anglo-americana. La difesa di Roma avrebbe dunque potuto segnare diversamente le sorti del conflitto.
Ma non fu così. Il governo Badoglio e i comandi militari non solo non predisposero alcun piano di protezione degli aeroporti determinando la sospensione in extremis dell’aviosbarco americano, ma lasciarono le forze armate italiane, in patria e all’estero, prive di ordini precisi sul da farsi, in balía delle truppe tedesche. Queste fin dal maggio del 1943 avevano predisposto piani di intervento nel caso di una defezione dell’Italia dalla guerra, che applicarono con grande energia, favorite dallo stato di caos organizzativo e psicologico in cui l’annuncio dell’armistizio aveva precipitato l’apparato militare italiano, lasciato colpevolmente impreparato. Mentre i vertici politici e militari dello stato abbandonavano precipitosamente Roma e si rifugiavano a Brindisi in Puglia, oltre un milione di soldati, allo sbando, venivano disarmati con l’inganno e con la forza dai tedeschi e in gran numero avviati nei campi di internamento per essere utilizzati come lavoratori forzati nell’economia di guerra tedesca.
In Italia e all’estero, nei Balcani come nelle isole dello Ionio e dell’Egeo, la dignità del paese fu salvata da singoli reparti che presero le armi contro i tedeschi, talvolta – come a Roma a Porta San Paolo o a Piombino – col concorso di civili guidati dai partiti antifascisti. Era l’inizio del difficile e sofferto riscatto nazionale che, attraverso la lotta di liberazione contro la Germania hitleriana e il rinato fascismo di Salò, avrebbe condotto a istituzioni democratiche, a una nuova Italia repubblicana, ben diversa dall’Italia monarchico-fascista che aveva portato il paese a un drammatico collasso dopo la sconfitta nella guerra di aggressione.
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