- Come può un artista di oggi affrontare la narrazione di quelle storie sacre che per secoli hanno segnato il paesaggio della pittura ma che da tempo si sono eclissate? La domanda non concerne la propensione di tantissimi artisti a frequentare la sfera dello “spirituale”.
- La domanda riguarda proprio quel campo vasto di personaggi e fatti che innervano la storia del cristianesimo. È possibile affrontarli oggi senza cadere nel passatismo?
- Anche in un’epoca di scristianizzazione ormai dominante, l’iconografia cristiana continua a rappresentare un’ipotesi di lavoro per tanti artisti contemporanei. Come nel caso del palermitano Francesco De Grandi
Come può un artista di oggi affrontare la narrazione di quelle storie sacre che per secoli hanno segnato il paesaggio della pittura ma che da tempo si sono eclissate? La domanda non concerne la propensione di tantissimi artisti a frequentare la sfera dello “spirituale”.
La domanda riguarda proprio quel campo vasto di personaggi e fatti che innervano la storia del cristianesimo. È possibile affrontarli oggi senza cadere nel passatismo? E come proporli in un contesto diventato così indifferente e perfino incapace di leggere il contenuto e il significato di quelle stesse storie? In sintesi: è possibile riallinearle alla contemporaneità?
Il divino incontrabile
La settimana scorsa Elio Cappuccio, affrontando il libro di James Elkins appena pubblicato in Italia da Johan & Levi, sottolineava correttamente come nell’arte contemporanea «l’esperienza del sacro, più che nella bellezza, si rivela nel sublime, stravolgendo i limiti della forma».
Per questo «anche nella figurazione l’aspetto allusivo prevale sulla narrazione e le immagini sono allusive più che narrative. Alla indicibilità del divino corrisponde dunque, nelle diversificazioni che caratterizzano il lavoro dei diversi artisti, la difficoltà di trovare immagini che possano rappresentarlo».
Il cristianesimo e tutta la storia che ne è scaturita parte da un presupposto opposto: che il divino non solo sia dicibile, ma anche visibile, toccabile, incontrabile. Se l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, diventa conseguentemente possibile di riflesso dare un volto a Dio. E se poi Dio si è fatto uomo ed è entrato concretamente nella storia, si può anche raccontare, visualizzandola, tutta la parabola della sua presenza terrena.
È questa una situazione così intrinseca al cristianesimo, da annoverare, secondo la tradizione, già due artisti come testimoni diretti dei fatti: il primo è San Luca evangelista, pittore e “ritrattista” di Maria, al quale si attribuisce un prototipo delle icone denominato Hodigìtria.
L’altro è Nicodemo, membro del Sinedrio, presente sul Golgota nel doloroso momento della Deposizione. Nicodemo sarebbe stato scultore (infatti Michelangelo si cala nei suoi panni nella Pietà Bardini, che era destinata alla sua tomba). Le modalità di tramandare questa narrazione visiva sono cambiate via via nei secoli, permeando e lasciandosi permeare dalla sensibilità e dalla cultura che hanno contrassegnato le varie stagioni della storia. Fino al black out del XX secolo, a causa del divorzio tra gli artisti e la chiesa, come ammise, con parole sincere e drammatiche, Paolo VI nel suo straordinario discorso del 1964, rivolto proprio agli artisti.
È inevitabile dunque che quando un pittore oggi trovi il coraggio di avventurarsi su questi terreni di narrazione, finisca con l’incorporare la ferita di una storia interrotta, di una oggettiva incomunicabilità tra il cristianesimo e la società contemporanea.
Ma sfondare questo blocco può portare anche a esiti di forza clamorosa, come dimostra il caso di Francis Bacon, in particolare con i suoi capolavori dipinti tra gli anni Quaranta e Sessanta, come le Tre figure ai piedi della Croce (1944): creature cieche, devastate dalle inquietudini del Novecento ma reali testimoni della tragedia di un Golgota portato ai nostri tempi.
La giusta distanza
Uno degli artisti contemporanei che con più convinzione e continuità si è implicato con l’iconografia cristiana è Francesco De Grandi (Palermo 1968). Nei suoi lavori si riscontra una naturalezza di fondo davanti al dettato evangelico, quasi una dimestichezza che è una delle sue qualità distintive.
Non si avverte la fatica di un’intenzionalità e di una conseguente artificiosità che spesso si intercetta nelle opere di tanti altri artisti che hanno imboccato percorsi nell’iconografia religiosa.
Dall’altra parte questo non gli impedisce affatto di immettere nelle opere la sua sensibilità e il suo immaginario: a volte persino di stare a distanza dal soggetto che sta rappresentando.
Quello della distanza è una soluzione a cui De Grandi ricorre di frequente. La desume, come lui stesso riconosce, dai due grandi modelli della pittura nordica di Brueghel il Vecchio e di James Ensor. L’artista apre l’obiettivo, allargando lo sguardo al contesto, indipendentemente dal fatto che il contesto sia funzionale o meno alla scena rappresentata.
La storia attraversa il palcoscenico del mondo senza dispositivi particolari che la portino in risalto, a riflettori spenti. Come nei grandi quadri di Brueghel, tutto accade senza che il flusso della vita si interrompa. A questo De Grandi aggiunge un elemento che, all’opposto, rende ciò che accade molto contiguo.
Avvicinare la storia
Lo vediamo in particolare nel Trittico delle storie di Gesù, grandi tele di 180 cm di base, con l’Entrata di Gesù a Palermo, la Flagellazione e il Compianto.
Come si evince dal titolo della prima tela del ciclo, De Grandi porta vicino a sé la storia, la fa riaccadere in un luogo strettamente connesso con la sua biografia. Rispetto all’esito dell’opera è una scelta decisiva, che risponde a un bisogno analogo a quello che aveva spinto Pier Paolo Pasolini, sul set del Vangelo secondo Matteo, a far interpretare gran parte dei ruoli a parenti e amici.
L’intenzione era di verificarne la tenuta rispetto al suo presente. Gesù entra nella Palermo/Gerusalemme passando sotto le pendici del monte Pellegrino e la prospettiva, come testimonia l’artista, è la stessa che si vede dal balcone della casa di sua madre. Il Compianto prende la forma di un carro funebre di derelitti che sfila davanti alla cancellata di piazza Marina, sotto un cielo eccitato e plumbeo.
Anche nel caso di Porziuncola, tela di dimensioni ancora maggiori, De Grandi è andato alla ricerca di una situazione che aderisse a quella della chiesetta-rudere dove era avvenuta l’epifania di san Francesco.
Nella campagna laziale ha trovato i resti di un edificio di pietra dissestato, con l’erba cresciuta tra gli interstizi. Davanti ha schierato il suo Francesco vestito come un homeless attorniato dai suoi primi adepti, giullari di una compagnia di giro senza un programma ben preciso se non quello di aprire le porte a tutti marginali della terra.
Il ruolo del tempo
Oltre ai luoghi anche il tempo riveste un ruolo strategico nella pittura di De Grandi. È un tempo doppio: da una parte portato in un presente inselvatichito e barbarico; dall’altra sospinto indietro verso il punto che potremmo definire del disvelamento.
È il momento in cui, come lui stesso spiega in una nota che ha accompagnato una recente esposizione di questo ciclo di tele a Palermo, nasce «il sentimento creaturale… l’idea di essere entità create e agite da una volontà superiore. È il momento in cui l’idea di Dio si manifesta nell’uomo».
«Che cosa è veramente successo in quel momento?», si chiede De Grandi. Quale sgomento ha pervaso l’uomo? La pianta segreta mangiata da Eva e Adamo, al centro di un’altra opera intitolata Come creature, «ha forse espanso la loro coscienza a un punto tale da poter pensare l’esistenza di Dio?».
La pittura di De Grandi è pervasa e scossa dall’inquietudine che l’irrompere di questa consapevolezza determina nell’uomo. Il disvelamento di Dio che s’insedia come presenza o anche come idea nella storia, ha aspetti di terribilità. Spalanca all’uomo la relazione con un’entità smisurata, totalmente altra, che per De Grandi trova un corrispettivo visivo nella natura immensa e incombente, non a caso dominatrice degli spazi in tante sue opere.
La pittura stessa vibra, freme, crepita, si scheggia, come fosse attraversata da una sequenza infinita di scosse. Tuttavia non si richiude mai nell’ombra o nell’indefinitezza del non dicibile. Resta ostinatamente precisa, dettagliata, a volte accesa da una luminosità tersa come se l’arretramento nel tempo ci avesse portato in una sorta di alba del mondo. L’alba di una coscienza nuova destinata persino a diventare storia e ad alimentare la pittura con un dinamismo che evidentemente è tutt’altro che esaurito.
«Dipingo le Crocifissioni, perché rappresentano una magnifica armatura su cui innestare ogni tipo di sensazione», aveva risposto Francis Bacon nel libro intervista con David Sylvester. «Finora non ho trovato un soggetto altrettanto valido per abbracciare certi campi dell’umano».
Anche in un’epoca di scristianizzazione ormai galoppante l’armatura dell’iconografia cristiana continuava dunque a rappresentare qualcosa di imprescindibile per tanti artisti: un’ipotesi di lavoro sempre aperta dove il mistero del mondo precipita nella realtà fisica dei corpi e della storia.
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