Underperform. Questo si dice di una prestazione deludente. È il giudizio di questi giorni sul calcio italiano, il cui fallimento ogni qual volta l’Italia viene eliminata da una competizione scatena indignazione e maldestra necessità di trovare dei responsabili.

Non solo certo. Una parte della società gioisce. Gli enormi interessi che ruotano intorno a questo sport generano anche un profondo rifiuto. Chi poi è appassionato dei così detti “sport minori” spera che gli insuccessi del calcio contribuiscano a spostare i riflettori su altre competizioni che non riescono a ottenere il giusto spazio.

Un insuccesso invece, in qualsiasi sport, è l’occasione per provare a capirne le ragioni, benché far dipendere le proprie osservazioni dai risultati sia, nello sport come nella vita, assai rischioso. I risultati dipendono sempre da una dose di aleatorietà. Ma è il rapporto con lo sport nel nostro paese, come confermano i maggiori enti di promozione sportiva, a non andare affatto bene, né da un punto di vista statistico né culturale.

Statistico perché, come evidenziano i report (di Coni e Istat tra gli altri), solo un italiano su tre pratica sport in modo continuativo.

Culturale perché i tassi di sedentarietà sono inversamente proporzionali a quelli di scolarizzazione: dove aumenta il livello di studio aumenta la propensione all’attività fisica.

L’Italia quindi, al di là di roboanti exploit che si verificano ciclicamente ora nel tennis, ora nel nuoto, ora nel calcio, o dei tonfi eclatanti, sta dove deve stare dal punto di vista dello sport d’élite. Tra le prime dieci potenze mondiali.

Il problema è piuttosto l’indicatore che utilizziamo per giudicare lo stato di salute del sistema. Se in economia non è sufficiente utilizzare il Pil, nello sport i giudizi si fermano ancora alla vittoria o alla sconfitta.

Ma i mali del nostro sistema sportivo non sono legati ai risultati, dipendono dai dati sconfortanti dei tesseramenti e più complessivamente dei praticanti.

Dopo anni incoraggianti, complice la pandemia, il numero complessivo di minori che non pratica sport è aumentato in tutte le fasce d’età secondo un’indagine della fondazione “Con i bambini” del 2023. Tra i bambini di 3-5 anni la crescita è stata di ben 5,4 punti, passando dal 42,8 al 48,2%. Un bambino su quattro non fa sport tra i 6 e i 10 anni. Tra gli 11 e i 17 anni gli inattivi sono cresciuti fino al 30%.

Guardando al calcio, è vero che i numeri ricominciano ad avvicinarsi a quelli precedenti al 2019 (il 20% della popolazione maschile giovanile), ma anche che non è cambiata la percentuale di chi si ferma all’attività di base.

La scuola continua a latitare e, dall’infanzia in poi, i progetti di collaborazione tra il mondo dello sport e quello dell’educazione sono pochissimi e per lo più incentrati sulla necessità di introdurre i bambini il prima possibile alla pratica agonistica, senza rispettare l’esigenza di soddisfare inizialmente il bisogno di giocare ed esercitare la creatività; e solo dopo diventare eventualmente un atleta d’élite.

Questo sistema, più volte messo in discussione da realtà come la Uisp (Unione italiana sport per tutti), continua a reggere alle critiche, proprio perché esse puntano su obiettivi sbagliati.

È l’assenza di investimenti nella pratica sportiva di base, quella collegata al benessere e alla salute psicofisica, possibile in quelle città costruite a misura di persona, dove il verde pubblico attrezzato con scivoli e altalene, ma anche porte, reti, tabelloni dove poter lanciare una pallina o far rimbalzare un pallone, che andrebbe segnalata tra i problemi più gravi.

In un paese dove lo sport si può praticare solo all’interno di strutture costose e separate dal tessuto urbano a differenza di quanto accade oltre i nostri confini.

A questi paesi invidiamo i risultati sportivi, gli atleti carismatici, gli sponsor sulle maglie, mentre dovremmo invidiare lo spazio che la cultura del movimento e dell’attività fisica occupa all’interno di quelle società.

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