Avevo letto che l’equilibrio tra la tradizione del quartiere, il commercio, il mercato immobiliare e il crimine organizzato era saltato...
In due anni sono uscito dal quartiere solo per andare in centro. Avevo letto che si era svuotato ed era vero: non solo era vuoto di turisti ma aveva anche perso il suo senso, non esisteva più l’aspirazione ad arrivarci. Mano a mano che riprendono gli eventi, sono ancora come isolati l’uno dall’altro, dei fatti fine a sé stessi che non innescano movimento.
L’altra sera sono tornato nel locale di un amico a San Lorenzo. Pochi clienti, nessuno del vecchio giro. Il proprietario l’avevo sempre visto al centro di questa comunità di persone, invece adesso era simpatico e dolce come lo conoscevo ma era solo in mezzo al niente. Le strade erano quasi deserte, perfino la piazza pedonale che cominciava a venti metri dal tavolino dove mi ero seduto con mia moglie. Senza dircelo, abbiamo deciso di non fargli domande su com’era cambiata la zona.
Avevo letto che l’equilibrio tra la tradizione del quartiere, il commercio, il mercato immobiliare e il crimine organizzato era saltato.
Ai tavolini sul marciapiede di fronte erano seduti tre uomini: due ragazzi dall’aria borghese ed eccitata, un uomo sui trentacinque e più cupo, bianco con un accento dell’est. Una conversazione di risate sicure che rivelava una rara simpatia interclassista; parlavano di giri, di soldi e di cose costose. A un certo momento è passata una macchina della polizia. Dopo un minuto è arrivato un loro amico e ha lasciato la macchina per strada; uno dei ragazzi borghesi ridendo ha detto «Ammazza che occhio, sei arrivato appena se ne sono andate le guardie». La frase ha squillato nella strada vuota.
Quando ci siamo alzati e ce ne siamo andati avevamo addosso la sensazione che non saremmo tornati mai più da quelle parti. Pochi giorni dopo invece una coppia di amici ci ha invitati a bere in un circolo che ha aperto dall’altro capo dello stesso quartiere.
Si è parlato tanto di Soho House perché è una mossa poco romana: un circolo internazionale che apre una sede a Roma per portare aspirazioni. Le ambasciate, l’architettura coloniale, le exclave, i circoli di cultura nazionale all’estero - le bolle di cultura straniera sono tra le mie esperienze preferite, danno sensazioni crudeli, spietate; piegando l’atmosfera, illustrano in maniera inconfutabile cos’è il potere: il potere economico o politico è l’ebbrezza di imporre a piacimento una nuova atmosfera.
Questo circolo straniero è un palazzo di dieci piani costruito da zero il cui aspetto, quando si staglia di notte all’angolo del quartiere, rimanda a un disegno architettonico di fine Ottocento, con la massa rivelata dalle ombreggiature, leggermente irreale. Sembra completamente estraneo e insieme sembra sia sempre stato lì. Dentro, l’illuminazione racconta come si illuminano i posti costosi nella nazione potente che ce l’ha portato. Ogni spazio è definito dai punti di luce, che disegnano i percorsi tra i divani, i tavoli, i banconi con il minimo di elettricità necessario, immergendo le cose e i corpi in una delicata ultradefinizione.
Il potere sprigionato da questo palazzo distante duecento metri dalla via deserta del locale del mio amico è incarnato dal suo ingresso. Sono rimasto a osservarlo all’entrata e poi uscendo alla fine dell’aperitivo: semplici porte a vetro con la molla, sul marciapiede non c’è traccia di un sistema per chiudere e sbarrare il palazzo: non hanno le grate, non sembra esserci saracinesca, il palazzo è come protetto da un campo magnetico e quel che dice è insieme che sarà sempre aperto e che è inespugnabile.
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