La figura di Umberto Terracini, «rivoluzionario di professione», è tra quelle che rappresenta meglio il cammino e la trasformazione del Pci. Fondato per arrivare alla dittatura del proletariato, dopo il 25 aprile approdò attraverso un lungo e originale percorso politico ai principi democratici, pur in maniera non del tutto lineare, sotto la guida di Palmiro Togliatti, smentendo un pregiudizio.
C’è un mito, nel dibattito pubblico italiano, che stenta a morire, quello secondo cui i comunisti, in quanto sostenitori di un’ideologia intrinsecamente illiberale, sarebbero sempre e comunque nemici della democrazia. Questa tendenza, ampiamente sopravvissuta al definitivo tracollo del comunismo, simboleggiato prima dalla caduta del muro di Berlino del 1989 e poi dal dissolvimento dell’Unione Sovietica del 1991, si è trasformata nel tempo in una potente arma propagandistica giunta fino ai giorni nostri, molto utilizzata a livello politico e storiografico.
È innegabile che il Partito comunista italiano, fondato a Livorno nel 1921 sull’onda della ventata rivoluzionaria iniziata quattro anni prima in Russia, sia nato, così come tutti gli altri partiti comunisti, in contrapposizione alla cosiddetta “democrazia borghese”, che avrebbe voluto abbattere per costruire anche in Italia un movimento rivoluzionario che instaurasse la “dittatura del proletariato”, come prescritto dalla Terza Internazionale. I suoi primi anni di vita, caratterizzati dalla leadership, tanto carismatica quanto intransigente ed estremistica, di Amadeo Bordiga, si inscrivono perfettamente in questa tendenza.
Il cammino del Pci
È altrettanto vero, però, che proprio i comunisti italiani, una volta che le speranze rivoluzionarie si sono trasformate in illusioni, spazzate via dall’insorgere del fascismo, si sono resi protagonisti di un lungo e originale percorso politico che, pur procedendo in maniera non sempre del tutto lineare, li ha portati, attraverso la lucida e assai realistica guida di Palmiro Togliatti, ad aderire ai principi della democrazia, smentendo di fatto il pregiudizio di cui sopra.
Ed è indubbio che, nel panorama del comunismo italiano, la figura di Umberto Terracini (1895-1983), di cui pochi mesi fa si è celebrato il quarantesimo anniversario della morte, è una di quelle che, più di molte altre, rappresenta l’emblema di questa peculiarità.
Pur avendo anch’egli pienamente condiviso la linea estremistica dei primi anni, perfettamente a suo agio nei panni del «rivoluzionario di professione» (celebre, in proposito, la sua critica alla linea della Terza Internazionale, giudicata eccessivamente moderata, espressa nel 1921 in occasione del terzo Congresso dell’organizzazione comunista, che gli procura la dura reprimenda di Lenin), il suo particolare percorso biografico lo ha reso uno dei più autorevoli e credibili sostenitori del “partito nuovo” voluto da Togliatti, basato proprio sull’accettazione del metodo democratico.
Ciò è dovuto essenzialmente all’attività da lui svolta all’interno dell’Assemblea costituente, che presiede dal febbraio del 1947 fino al termine dei lavori. Il fatto che l’uomo che ha scontato una delle condanne più lunghe comminate dal regime fascista, diciassette anni tra carcere e confino, per un totale di ben 6183 giorni, si ritrovi a ricoprire la seconda carica dello Stato e a dirigere l’organo al quale è affidato il compito di redigere il testo della nuova Costituzione della neonata Repubblica democratica nata dalla guerra di liberazione, quella Costituzione che rappresenta un elemento di pacificazione di tutto il popolo italiano, unito in un nuovo patto di cittadinanza che apre la strada a una nuova epoca di libertà e democrazia, testimonia l’irreversibile inserimento dei comunisti italiani all’interno delle istituzioni democratiche.
In questa sede ha modo di mettere in mostra le sue innate capacità politiche e la sua ampia cultura giuridica. Già dalla sua attività all’interno della Commissione dei 75, a cui è affidata la stesura del progetto di Costituzione, e della sottocommissione che si occupa dell’ordinamento costituzionale da lui presieduta, emerge nitidamente una sensibilità particolare verso importanti temi. Eccone alcuni esempi: sulla giustizia si batte affinché le pene detentive non siano eccessivamente afflittive, schierandosi contro l’ergastolo; sui diritti civili propone l’estensione del diritto di voto ai diciottenni e la fine della discriminazione dei cosiddetti figli illegittimi, schierandosi inoltre contro il principio dell’indissolubilità del matrimonio; riguardo all’ordinamento istituzionale si mostra particolarmente sensibile alla ricerca di un equilibrio tra i vari poteri dello Stato, elemento necessario per scongiurare qualsiasi tentazione autoritaria. Queste posizioni vengono espresse talvolta in controtendenza rispetto alla linea del suo partito.
Una volta eletto presidente, in sostituzione del dimissionario Saragat, guida l’Assemblea con competenza ed equilibrio, calandosi perfettamente nel ruolo di arbitro imparziale, caratteristiche che mantiene anche quando il clima politico cambia bruscamente, per effetto del sopraggiungere dei venti della guerra fredda, che determinano la fine dei governi di unità nazionale di cui il Pci fa parte.
Dalla presidenza evita, per evidenti ragioni di opportunità, di intervenire direttamente nel dibattito politico, ma non rinuncia, quando è necessario, a prendere posizione con grande nettezza, ad esempio quando convince il democristiano Giorgio La Pira a rinunciare a inserire un richiamo di tipo religioso all’inizio del testo costituzionale («In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione»), salvaguardando così l’indispensabile laicità.
Il modo in cui guida i lavori gli vale l’apprezzamento generalizzato di tutte le forze politiche, comprese quelle del fronte conservatore. Emblematico il giudizio espresso da uno dei più eminenti personaggi della vecchia Italia liberale, l’ex presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, il quale, in conclusione dei lavori, dichiara che Terracini è stato «veramente un gran presidente [...] un presidente nato perfetto!».
Il 27 dicembre del 1947 Terracini appone la sua firma in calce al testo costituzionale approvato cinque giorni prima dall’Assemblea, assieme al capo provvisorio dello Stato De Nicola e al presidente del Consiglio De Gasperi.
La Costituzione della Repubblica italiana reca quindi il nome di un comunista. La cosa riveste un fortissimo significato simbolico: essa rappresenta il segno tangibile dell’adesione del Pci ai principi della democrazia e della sua indiscutibile e, di fatto, definitiva integrazione all’interno delle istituzioni repubblicane. La firma, inoltre, gli garantisce una sorta di immortalità, collocandolo a pieno titolo nel pantheon dei costruttori della democrazia repubblicana.
Fin dal periodo immediatamente successivo all’approvazione della Costituzione, si batte con forza affinché il testo costituzionale sia applicato in ogni sua parte, prevedendo che proprio la sua piena attuazione possa diventare la principale vittima del mutato clima politico, cosa che effettivamente si verificherà.
La lotta per la difesa della Costituzione dagli attacchi di tutti coloro che minacceranno di sovvertirla e per la sua concreta realizzazione continuerà anche nei decenni successivi, diventando un leitmotiv della sua attività politica; in questa sua battaglia avrà modo di contrapporsi anche a esponenti della propria parte, i quali, nella fase più acuta della guerra fredda, denunceranno le «illusioni costituzionali», auspicando l’adozione di una linea politica maggiormente antagonistica.
L’esperienza costituente rappresenta senza dubbio il momento più alto della carriera politica di Terracini. Esso segnerà per sempre la sua biografia, contribuendo a rafforzare il suo prestigio e la sua autorevolezza, facendo di lui una delle figure più rappresentative di tutto il periodo costituente iniziato con la Liberazione del 25 aprile.
L’autore ha pubblicato il libro “Umberto Terracini - Un comunista solitario” (Donzelli Editore)
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