- Fra i numerosi pregi della versione cinematografica di Illusioni perdute girata da Xavier Giannolli c’è quello di aver ricordato l’attualità di Honoré de Balzac, un autore che per molti versi può essere considerato il primo grande scrittore dell’epoca moderna.
- Il film restituisce a pieno lo spirito del romanzo che – come nel resto de La commedia umana di Balzac – è quello della tumultuosa “società aperta”, del desiderio che si estende su ogni ambito della vita, della libertà e dell’incertezza e del rischio.
- Politicamente conservatore, Balzac conosceva fin troppo bene la rapacità del nascente mondo commerciale e borghese e per contrasto idealizzava, come in una sorta di pulsione metafisica, le esistenze inoperose dei nobili.
Fra i numerosi pregi della versione cinematografica di Illusioni perdute girata da Xavier Giannolli c’è quello di aver ricordato l’attualità di Honoré de Balzac, un autore che per molti versi può essere considerato il primo grande scrittore dell’epoca moderna.
La Parigi in cui si muovono i personaggi del film è tutt’altro che polverosa: le carrozze si muovono frenetiche fra i teatri e le case dove si tengono feste a base di champagne, hashish, oppio e soprattutto sesso, il tutto finanziato spesso e volentieri a debito. La redazione del giornale liberale in cui lavora il protagonista Lucien de Rubemprè è rappresentata come una sorta di anticipazione degli uffici dei broker di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese e la scelta non è peregrina: in quell’epoca si moltiplicano i giornali di opposizione e si fa aperto mercimonio di articoli satirici e recensioni.
Un giro d’affari enorme in cui si creano in poco tempo nuove personalità pubbliche e nuove fortune, un settore che non ha nulla a che fare con la morale e molto poco con l’amore per l’arte come, al punto della vita in cui scrisse il romanzo, Balzac aveva avuto modo di sperimentare sulla propria pelle.
Giannolli opera per selezione e condensazione, come è inevitabile fare nel trarre un film da un libro e come è ancor più inevitabile quando si è alle prese con un’opera sterminata come Illusioni perdute. Sceglie ad esempio di rappresentare solo la parte centrale del romanzo ma le battute e le scene più importanti del film sono fedeli all’opera letteraria.
Lo spirito del romanzo
Più importante ancora, il film restituisce a pieno lo spirito del romanzo che – come nel resto de La commedia umana di Balzac – è quello della tumultuosa “società aperta”, del desiderio che si estende su ogni ambito della vita, della libertà e dell’incertezza e del rischio.
Durante Illusioni perdute siamo in piena restaurazione ma la sconfitta di Napoleone non può cancellare il fatto che la nobiltà sia una forza storica ormai esaurita, una classe sociale improduttiva i cui esponenti impiegano il tempo a tracciare le gerarchie interne al proprio gruppo e a difenderlo dai tentativi di intrusione, basando la propria ricchezza sullo sfruttamento parassitario di lontani feudi di provincia. Una classe condannata prima o poi a soccombere alla produttività, all’imprenditorialità e ai meccanismi di selezione borghese. Di lì a poco l’industrializzazione eclisserà definitivamente la rendita fondiaria come fonte primaria di creazione della ricchezza e le idee che fioriranno da questo nuovo assetto economico cambieranno definitivamente la visione del mondo degli uomini di un’intera epoca.
Come ricorda Peter Brooks nella biografia di recente traduzione Vite di Balzac (Carrocci), la crisi della società nobiliare è anche la crisi di una società organica in cui i destini delle persone si decidevano in larghissima parte già al momento della loro nascita e segna l’avvento di una nuova società della libertà e, di conseguenza, di uno stato di incertezza in cui ogni biografia è tutta da scrivere e verrà composta secondo le leggi del desiderio. Nell’epoca di Balzac si dischiudono i semi che daranno origine alla nostra contemporaneità e ne La commedia umana ne troviamo ampia e dettagliata documentazione. Lo sterminato corpus balzachiano con i suoi più di duemila personaggi, molti dei quali accompagnati da minuziose biografie, non è solo un immane sforzo cronachistico, né soltanto una straordinaria opera letteraria, ma anche un tentativo di mettere ordine in questo caos germinale.
L’incipit
Di una modernità quasi inspiegabile è anche l’incipit di Illusioni perdute: «All’epoca in cui ha inizio questa storia, lo Stanhope e i suoi rulli per distribuire l’inchiostro non erano ancora in uso nelle piccole stamperie di provincia». Segue un’intera pagina dedicata allo stato dell’arte delle tipografie del tempo, fra capitale e provincia. Senza tipografie, senza rulli, senza inchiostri, senza presse e senza fonderie per i caratteri, niente giornali e niente libri e quindi nessun vortice parigino, nessun destino che prenda forma nel giornalismo e nell’editoria, nessun arricchimento, nessun tradimento morale, in breve niente Illusioni perdute.
Così come al giorno d’oggi senza Internet e senza i social network non esisterebbero il woke, QAnon, la cancel culture, gli influencer e i politici di ogni schieramento sarebbero necessariamente molto diversi, al tempo di Balzac una nuova macchina tipografica capace di tirature più ampie a costi minori poteva risultare decisiva nel rendere possibili battaglie politiche altrimenti impensabili.
Tuttavia per Balzac non era solo, né soprattutto, un problema sociale quanto piuttosto una questione di immaginario personale, di nuove psicologie, di una nuova dinamica delle emozioni. Se Marx di fronte a un panorama di questo tipo si sarebbe concentrato sul problema della proprietà dei mezzi di produzione, sullo sfondo di tutta La commedia umana c’è invece la questione ben più ampia e profonda di come le nuove tecnologie finiscano per dare forme ai sogni, alle ambizioni e agli incubi degli uomini, prima ancora che alle loro fortune e disgrazie economiche.
Le aziende di Balzac
Balzac aveva una conoscenza di prima mano dell’aspetto tecnico della produzione di carta stampata perché aveva posseduto sia una tipografia sia una fonderia di caratteri e, come spesso accadde nella sua vita, riuscì a creare un disastro finanziario da delle attività effettivamente piene di potenziale.
I successivi proprietari a cui Balzac svendette queste piccole aziende perché oberato – come sempre – dai debiti, ebbero gioco piuttosto facile nel ricavarne molto denaro, cosa che allo scrittore non era affatto riuscita. Perso nei suoi mondi paralleli e nei suoi spropositati sogni di potenza, Balzac era del tutto privo delle virtù weberiane del borghese coscienzioso.
Ebbe sempre ottime intuizioni imprenditoriali – semmai troppo in anticipo sui tempi – idee che si risolsero però invariabilmente in pessime esecuzioni, condannandolo a insuccessi clamorosi accompagnati dalla perenne sensazione di occasione perduta, di successo sfiorato e poi sfuggito fra le dita solo per il volere di un fato beffardo.
Memorabile fu il rocambolesco viaggio a cui si sottopose dopo aver parlato, durante una quarantena in un ospedale di Genova, con un italiano che diceva di voler utilizzare nuove tecniche di estrazione nelle miniere d’argento scavate dagli antichi romani in Sardegna.
Balzac sì sentì subito parte dell’impresa nonostante non avesse né le competenze tecniche, né i capitali. Quando, dopo aver bussato a un’infinità di porte a Parigi e intrapreso un viaggio lungo e complesso, riuscì ad arrivare in Sardegna, scoprì che l’attività era già iniziata senza di lui – che d’altro canto non era in alcun modo necessario. Quasi inutile specificare che negli anni successivi le miniere sarde si riveleranno un affare formidabile per i loro proprietari.
Un lavoratore leggendario
Balzac in realtà non era fatto della materia adatta a questo genere di imprese: inesauribile creatore di mondi e di personaggi e personaggio a sua volta nella rappresentazione che faceva di sé stesso in società, mancava della paziente e calcolatrice monomaniacalità tipica del grande imprenditore.
Non che gli difettasse la dedizione, al contrario era, come racconta Stefan Zweig nell’ottimo Balzac – il romanzo della sua vita (Elliot), un lavoratore addirittura leggendario. Nei 20 anni in cui scrisse le migliaia di pagine de La commedia umana tenne ritmi semplicemente folli: si alzava a mezzanotte, lavorava nella solitudine più assoluta fino alle sei di mattina quando un servo gli serviva abbondanti dosi di caffè – c’è chi ha calcolato che in tutto deve averne consumate più di 50mila tazze –, alle 8 colazione leggera seguita da un bagno di un’ora, poi di nuovo lavoro: disbrigo della corrispondenza e soprattutto correzione di bozze, l’attività che lo rendeva inviso a tutti i tipografi di Parigi.
Balzac infatti era capace di richiedere anche 15 o 16 giri di bozze per un singolo libro – libri che venivano poi regolarmente revisionati in occasione delle nuove edizioni. Una mania che lo portò più volte a spendere interi anticipi e spesso anche delle cifre aggiuntive per sostenere i costi tipografici ma che oggi rimane a testamento dell’ossessione di un uomo che, anche quando era costretto a scrivere in fretta per placare i creditori, non rinunciò mai a un’ambizione artistica radicale.
Solo nel tardo pomeriggio Balzac si concedeva un paio di ore per la visita di un amico, poco dopo andava a letto e a mezzanotte tutto ricominciava da capo. Tenne questi ritmi per circa vent’anni, riducendo le ore di lavoro a una decina quando si trovava in viaggio e concedendosi qualche giorno in società solo dopo due o tre settimane di lavoro ininterrotto, giornate in cui esplodeva la sua leggendaria esuberanza e Balzac dava luogo a quelle performance che crearono la sua immagine pubblica, un’immagine che ignorò sempre lo scrittore segreto, l’uomo che passava la grande maggioranza del suo tempo piegato su una scrivania, spesso mangiando pochissimo, al contrario dei pasti luculliani che si concedeva durante i brevi momenti di contatto con il mondo.
Contro la pirateria
Questa vita, assieme agli stress finanziari, usura in fretta un corpo umano e portò Balzac a scrivere «talvolta mi pare che il cervello stesso mi si infiammi. Morirò sulla breccia dell’intelligenza». Balzac fu per tutta la sua esistenza costretto a combattere anche contro il fenomeno della pirateria, vide i suoi romanzi ristampati illegalmente nelle tipografie belghe e in quelle della provincia francese, attività che gli sottraevano gli introiti del suo duro lavoro e contro le quali fu promotore della prima associazione per la difesa del diritto d’autore. Anche in questo caso le analogie con il presente sono evidenti.
A Balzac non mancava quindi l’operosità, ma lavorò sempre come un fiume in piena, incontenibile sia nelle quantità che nei modi, perennemente alle prese con una sorta di fuoco sacro artistico da un lato e con l’ansia di una lunga lista di creditori da saldare dall’altro. Si potrebbe dire che gli mancò lucidità per eccesso d’intelligenza, una contraddizione balzachiana fra le tante, la principale risiedendo nella sua capacità di cogliere e raccontare come pochi altri le debolezze, le passioni e gli inganni in cui cadono le menti umane e al tempo stesso non essere capace di utilizzare questa conoscenza per evitare di commettere i medesimi errori.
Il suo dramma è quindi quello di un uomo che vede la trama della realtà meglio di chiunque nel suo tempo, ma ciononostante non è in grado di sfuggire a insidie a cui altri, meno dotati di lui, si tengono con facilità a distanza. È una condizione paradossale e in quanto tale eminentemente letteraria.
Attrazione per la nobiltà
Un’altra nota debolezza di Balzac fu la grottesca attrazione per la nobiltà che lo portò appunto a dotarsi di un “de” posticcio nel nome, proprio come il Lucien de Rubemprè di Illusioni perdute usa il cognome nobile della madre invece che quello borghese del padre (Chardon). Figlio di un uomo che si è creato una posizione economica partendo dal nulla, Balzac pare deciso a compiere un passo ulteriore e a salire in quello che lui considera una sorta di olimpo: la nobiltà del Faubourg Saint-Germain.
Politicamente conservatore, Balzac conosceva fin troppo bene la rapacità del nascente mondo commerciale e borghese e per contrasto idealizzava, come in una sorta di pulsione metafisica, le esistenze inoperose dei nobili. Con il tempo ebbe modo di conoscere da vicino anche le gradazioni specifiche di miseria umana che si confanno alla nobiltà e raccontò con precisione i limiti di quella classe sociale, non per questo smise però di sognare di farne parte.
Balzac in cuor suo sapeva bene che l’unico modo che ha un letterato per farsi rispettare dai nobili è di mantenere del contegno e un certo distacco, mostrarsi cioè diverso e per certi versi superiore, ma questo non lo fermò mai dal comportarsi invece come una sorta di loro caricatura, spendendo soldi che non aveva per abiti, carrozze, arredamenti pacchiani o spesso proprio contraffatti – naturalmente a sua insaputa.
Sempre come Lucien de Rubemprè, Balzac sa che anche nel vestirsi bene non bisogna eccedere con gli abiti dei sarti più alla moda della città, altrimenti c’è il rischio, per non dire la certezza, di passare per dei parvenu. Questa consapevolezza non gli fu però di nessun aiuto e i conti che lasciò presso i sarti furono sempre fra i più importanti nel suo lungo elenco di debiti.
Fra le tante follie, la più nota è forse l’acquisto di un bastone da passeggio tempestato di pietre preziose pagato 700 franchi, un oggetto che divenne il segno di riconoscimento di Balzac nelle cronache del tempo. Furono sprechi di questo genere a tenere Balzac tutta la vita sotto lo scacco dei creditori anche quando ormai gli anticipi per i suoi libri erano diventati i più alti d’Europa – e quindi del mondo – la sua fama globale e gli introiti sufficienti per un’esistenza più che agiata.
Le donne della sua vita
Balzac fu più volte salvato dalla bancarotta dalle donne della sua vita, sua madre in primis e poi dalle sue amanti e confidenti, donne che aveva in discreto numero nonostante l’aspetto pingue. Se, fra slanci inusitati di generosità e colpevoli sparizioni, Balzac non fu sempre all’altezza dell’affetto e dell’aiuto che ricevette, fu invece schiavo per tutta la parte finale della sua esistenza della contessa russa-polacca Évelyne Hańska.
Dalla lontana Ucraina, dove erano le proprietà del marito, la contessa gli scrisse una lettera da ammiratrice, contestando però la visione delle donne espressa in uno dei romanzi di Balzac. Durante il lungo rapporto che nacque da quel rimprovero morale, la contessa si dimostrò a più riprese la donna più meschina e futile con cui Balzac avesse mai avuto a che fare e forse anche per questo lui si buttò anima e corpo in quel rapporto.
È doloroso leggere le umiliazioni gratuite a cui si sottopose il grande scrittore della sua epoca al cospetto di una donna che al di là del titolo nobiliare non aveva davvero alcun tipo di qualità, ma anche questa sorta di consapevole masochismo è pienamente balzachiano. Non bisogna pensare infatti né che Balzac non se ne rendesse conto, né che la promessa di una stabilità finanziaria se fosse riuscito a impalmare la Hanska dopo la morte del marito, fosse l’unico motivo di tanta cieca perseveranza.
Va tenuto presente ancora una volta la centralità in Balzac del desiderio come forza che muove il mondo, come traspariva già dal suo primo grande successo letterario La pelle di zigrino, un libro che racconta le vicende di un giovane che entra in possesso di un pezzo di pelle di zigrino dotato di qualità magiche. L’oggetto è capace di esaudire i desideri ma a ogni utilizzo diventa più piccolo e alla sua completa sparizione porterà con sé anche la vita del suo proprietario. La metafora è chiara: l’atto del desiderare consuma e infine uccide, eppure non è possibile astenersene. Cosa c’è di più attuale? L’occidente è ancora fondato su queste premesse, si potrebbe sostenere anzi che le abbia portate alle estreme conseguenze. Balzac siede ancora precisamente lì, all’alba del desiderio come misura di tutte le cose.
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