Fuori dalla porta, caos e rumori di Milano zona stazione Centrale. Dentro, gli oggetti simbolo di una vita e silenzio. Vedo una parete intera di cappelli, di ogni tipo, e un casco da palombaro. Chitarre, piume, strumenti musicali, una statua di un maiale in gabbia.

Su un muro c’è Medusa, appoggiata allo scaffale una testa di ciclope. Occhiali con i lustrini verdi sul tavolo e poi una lampada che ci tiene ad accendere lui subito appena entrato, a forma di balena. Poi Vinicio Capossela prende una brocca a forma di pesce, fatta a “u” e che fa “glu glu" quando versa e mette sul fuoco di una piccola cucina un decotto di liquirizia che mi consiglia di assaggiare.

Ha lanciato qualche giorno fa il suo nuovo album - il 13esimo - dal titolo Sciusten feste n. 1965, nelle radio da venerdì 29 suona Campanelle, tra le canzoni più natalizie del disco. La festa è pure il grande tema del docufilm Natale fuori orario, in sala dal 25 novembre. Con l’artista più visionario del Paese, partiamo allora da qui.

Si sente un uomo che vive in una festa permanente? Oggi per lei è festa?

In questo momento? No, ora non è festa per niente. La festa è un’interruzione del tempo ordinario, un tempo a parte che ci prendiamo, come un petardo nel congegno del tempo. È festa nel momento in cui stabiliamo che lo sia. Ci soccorre e ognuno sceglie quale. Se con la tua innamorata per esempio decidi che andare in quella pizzeria è una festa, allora lo è.

La musica è quella pizzeria?

Ha questo potere di sicuro. La festa ha la caratteristica di una durata temporanea, e poi può essere condivisa a livello di comunità, grande o piccolissima, o la si può vivere da soli.

La festa più memorabile della vita?

Abbiamo cercato di organizzarla per molti anni, con lo Sponz Fest, un luogo concepito per dare la possibilità di ricrearsi. La ricreazione è l’ora che mi piaceva di più, a scuola.

Sì?

Si andava a prendere il gnocchino, cioè la focaccia, da Maletti, il fondo di Scandiano. Perché il ricreo è ludico, è un insieme anche di mangiare, bere, orgasmo, e però ricreare è anche iniziare da capo e quindi in qualche modo la festa è anche un ricreare il mondo o così abbiamo cercato di fare. Festosa è la dissipazione, ma pure l’intimità. Se devo però dirle la festa più istruttiva, l’ho vissuta in Serbia.

C’entrava anche lì la musica?

Quella che mi fa sentire maggiormente euforia e morte l’una accanto all’altra: a Guca per l’elezione della miglior tromba del paese, partecipano le Brass band balcaniche (composte da ottoni e percussioni). Lì ho osservato questo signore che ha offerto giri da bere a molti e se ne stava in mezzo a tutti che suonavano intorno a lui, ed era il re della festa. E poi ho scoperto che era rimasto senza i soldi per pagare, e l’hanno portato via i gendarmi, come a Pinocchio, e però ecco: la festa è anche questo, il non pensare al domani ma neanche a 5 minuti dopo.

Nell’album e nel film – e poi sta per arrivare – c’è però di mezzo proprio il Natale. Una festa particolare. Che per lei è…

Beh, è una rielaborazione del mondo, che ci si è inventati. Esiste da illo tempore, dai Saturnali degli antichi romani, e c’è sempre stato un momento in cui l’umanità ha festeggiato lo snodo del momento più buio dell’anno e in cui quindi si va verso la luce. Poi si è trasformata in una festa consumistica, ma resta un periodo interessante.

FOTO SIMONE CECCHETTI

Come viveva da bambino questo periodo Vinicio Capossela?

Ho pochi ricordi della mia infanzia. Ricordo il senso dell’attesa, quello sì. Quel contare i giorni, forse perché stai aspettando ingenuamente un dono. E quell’attesa dava un altro colore al mondo. Ero così affezionato a questa faccenda che ogni anno quando c’era il calendario nuovo controllavo sempre che ci fosse il 24 dicembre.

Temeva sparisse?

Che cambiassero qualcosa, sì.

Liste di desideri, letterine a Babbo Natale. Cosa ci scriveva?

Mai fatta la letterina.

Mai?

No, non me la ricordo, ma d’altra parte è un’invenzione borghese. Essendo cresciuto – diciamo così – nelle classi subalterne, come le chiamava Gramsci, non c’erano né letterine né poesie recitate sul tavolo. Babbo Natale era uno zio, al massimo.

Ma allora cosa attendeva?

La neve. E non nevicava quasi mai in Pianura Padana dove sono cresciuto io. È sempre rimasta un’attesa delusa. Arrivavano le cartoline dei cugini dalla Svizzera, quelle sì, lì c’era la neve.

Cos’era o cos’è la neve per lei?

Contiene il silenzio, l’innocenza, e poi si sporca subito e finisce, e però mi ha sempre dato l’idea di qualcosa che purifica. L’illusione che possa pulire il mondo. I desideri sono universali, per carità, e però la loro espressione cambia a seconda del sostrato culturale a cui si appartiene. E allora io non chiedevo i doni e anzi con Jacopo Leone una decina di anni fa ci abbiamo scritto un libro, I cerini di Santo Nicola. E dicevamo che bisogna stare attenti a quello che si desidera, perché poi magari si avvera. Bisogna avere cura dei propri desideri anche perché si rischia di spingere al suicidio Babbo Natale, altrimenti, che alla moltiplicazione dei desideri rischia di non starci più dietro.

ANSA

Nel suo docufilm il racconto si snoda attraverso il tempo di un’eclissi.

Ci ho scritto anche un libro, sulle eclissi, mi interessano molto. Perché la luce va via, e non sai se tornerà o meno. È un po’ come stare nel ventre della balena di Pinocchio, nel quale si ripercorre la vita e ci si chiede se ci sarà un domani.

Ecco, e quindi al centro del film c'è una festa che si svolgeva solo se la luce c’era. Sta cominciando a mancare la luce?

Non lo so dire, di sicuro ho la sensazione che ci sia in atto un cambiamento importante. Nelle relazioni umane e nella società. L’innovazione tecnologica ha relazione con il discorso pubblico, comune. Non so quali saranno gli effetti, conto molto sullo spirito di adattamento. Ci sono tanto odio e rancore. La speranza e la gratitudine sono sentimenti che andrebbero coltivati, con esercizi, facendo le cose a partire dal proprio piccolo. Ci vuole molto lavoro su di sé per non cedere a degli impulsi di emotività bassa, per elaborarli e trasformarli in qualcosa che va oltre. Però non mi faccia parlare di questo.

Perché?

Perché è vero che in noi c’è la possibilità di sacralizzare il tempo. Cioè, la vita non va soltanto difesa, ma pure celebrata. E però davvero, queste cose non c’entrano e io ho fatto solo un disco di canzoni per le feste perché erano belle.

Lei ha espresso una visione del mondo.

Il disco si chiama Sciusten fest che era il modo in cui mio padre ricordava a orecchio si chiamava una festa nella sua gioventù ad Hannover. Mio padre è un uomo che rinomina il mondo. E questa è anche una storia di emigrazione per necessità e di quando la storia con la S maiuscola travolge le storie, le trasforma. In fondo san Nicola, il primo portatore di doni, lo abbiamo chiamato noi così ma ha avuto la sua fortuna in Germania, in Austria, nelle Alpi del nord. Quell’immigrazione non ha avuto nessuno a rappresentarla. Non un Martin Scorsese, o Frank Sinatra, o Padrino, ecco, che desse a questa storia una redenzione.

Impressionante quando ho letto che lei ha perso un amico proprio a Natale.

Sì, sì, proprio così.

Chi è il guastafeste?

È il baro che gioca scorretto, e nega agli altri di giocare, come quando arriva l’adulto e rompe l’incantesimo, la finzione, il patto che consente di giocare. È un po’ quello che succede quando lo sguardo di una persona a cui teniamo improvvisamente demolisce tutto il gioco in cui hai avvolto quella cosa. E il guastafeste può essere invidioso di chi la festa ce l’ha e cerca di rovinarla: l’invidia, che poi a pensarci è l’unico vizio Capitale che non prevede un piacere per chi lo fa. Almeno a chi pecca di gola piace mangiare. E invece l’invidioso non riesce neanche a godere del suo stesso peccato.

Desidera essere un porta-feste?

Beh, però un po’ di guastafeste va tenuto vivo in noi, come antidoto alla festa che rincitrullisce, e che non ha limite. E infatti l’ultima parola del disco è “basta feste”. Perché occorre dare termine alla festa.

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